La perdita di una persona o di qualcosa che si ama, una morte, una separazione, una partenza, un furto, secondo Freud non portano via solo qualcuno o qualcosa a noi caro, ma anche quella parte di noi che si relazionava con l’oggetto d’amore scomparso; quindi non è solo perdita di altro da noi ma di una parte significativa di sé. Il lutto (dal latino lugere, piangere) è la reazione emotiva che questa perdita comporta, la ferita dolorosa che produce un trauma anche sull’energia vitale.
Un primo punto importante da comprendere è che le separazioni e i lutti fanno parte della vita così come molti altri eventi emotivamente significativi, come l’amore: potremmo anche dire che sono una conseguenza dell’amore, perché quando ci coinvolgiamo in un rapporto d’amore ci assumiamo anche il rischio della sofferenza che la sua perdita comporta.
Il lavoro del lutto è il processo attraverso il quale si arriva ad accettare la scomparsa definitiva di qualcuno o di qualcosa che si amava e a separarsene consapevolmente. È anche importante capire che l’accettazione è diversa dalla rassegnazione: non è un ritornare a un “prima” riadattato né fermarsi in una chiusura passiva. Al contrario spesso è la spinta verso una trasformazione reattiva della nostra esistenza.
Il percorso di separazione dall’oggetto d’amore perduto inoltre non comporta la cancellazione della sua memoria, che al contrario può restare come dato importante impossibile da annullare. È piuttosto una ricollocazione temporale dei vissuti, il passaggio verso una nostalgia non paralizzante che concede spazio a un ritorno della forza vitale nel momento presente.
Questo processo è caratterizzato da tre aspetti: memoria, dolore e tempo. Dopo un momento iniziale di stordimento emotivo, la consapevolezza della perdita ritorna nell’affiorare doloroso del ricordo. È la fase peggiore, la più difficile, dove è particolarmente importante trovare un valido sostegno emotivo e motivazionale.
Il flusso dei ricordi in genere non segue un andamento lineare: vi sono momenti di apparente distacco durante i quali, all’improvviso, possono riapparire immagini che stringono il cuore in una morsa di dolore. La durata di questi ritorni violenti di memoria con il loro bagaglio di sofferenza non è prevedibile ma, se non si instaurano meccanismi difensivi patologici, col tempo tendono a diradarsi per frequenza e a diminuire d’intensità.
Le tradizioni popolari che richiedevano di portare i segni esteriori del lutto per un tempo variabile da uno a tre anni a seconda della relazione con la persona perduta avevano colto il tempo medio necessario per il suo superamento.
Di fronte a una grave perdita però ci possono essere alcune risposte patologiche che possiamo identificare soprattutto con l’angoscia melanconica e la negazione maniacale. Nella prima la reazione depressiva si prolunga in modo illimitato cronicizzandosi in quella che viene definita come la stagnazione melanconica del lutto, una condizione che diventa dominante nella propria esistenza. In questi casi la vita emotiva della persona si ferma raggelandosi intorno alla memoria di qualcuno che non c’è più e che si vuole trattenere ossessivamente.
Questo stato può avere gradi diversi di intensità, spesso accompagnati da comportamenti rituali come il conservare immodificati per lungo tempo gli spazi dove aveva vissuto la persona che è morta.
In altri casi possiamo osservare il rifiuto più o meno consapevole di riaprirsi alla vita nei suoi aspetti piacevoli, come se questa “colpevole” uscita dal lutto fosse un abbandono della persona amata, il tradimento della sua memoria.
Al contrario la negazione maniacale consiste nel rifiuto del dolore che ogni perdita inevitabilmente comporta. Non si vuole attraversare il tempo del lutto e la sofferenza che comporta e ci si getta in attività frenetiche per riempire il vuoto che è stato lasciato. Questa è una condizione molto diversa dalla reattività che fa seguito a una piena elaborazione della perdita, perché non permette di lasciare spazio al dolore, arrivando a svalutarne il senso e il valore o a negarne addirittura l’esistenza.
In entrambe le reazioni viene bloccato quel processo di separazione dall’oggetto d’amore perduto che può derivare solo da un lavoro consapevole col proprio dolore. È importante ricordare ancora che la separazione da chi muore, da chi si è allontanato o da qualcosa che si è perduta non è l’annullamento del suo ricordo, del quale resterà sempre traccia, così come rimane una cicatrice sulla pelle ferita che può essere appena visibile o profonda e a tratti dolente secondo la condizione di ognuno e l’entità del trauma.
Il percorso del lutto è quindi anche il processo di riappropriazione della parte di sé che è stata smarrita insieme a chi è scomparso, a un luogo o a un lavoro che si sono dovuti lasciare. Ogni fase di crescita, ogni passaggio evolutivo, partendo dall’utero, dal seno, dalla casa parentale e via di seguito, prevede un momento di separazione più o meno doloroso che richiede tempo e la forza di confrontarsi con il dolore. Inizia con il pianto, con la nostalgia, con il coltivare i ricordi, per prendere poi una progressiva distanza lasciando andare quanto è stato e non è più, ma che può continuare a vivere nel nostro patrimonio di memoria, nelle esperienze condivise e indelebili. Il dolore, se accolto, ci insegna sempre qualcosa.
Cosa può aiutarci in questo lavoro? Il tempo è un fattore indispensabile ma da solo spesso non basta. Il sostegno degli affetti vicini è certamente un altro elemento importante, ma molte volte non adeguato: la gestione di un lutto grave richiede la capacità di confrontarsi con un grave dolore e questo non è mai facile per chi non vi è preparato o è troppo emotivamente coinvolto. Per questo un lavoro terapeutico mirato può essere necessario.
Oltre al tempo e al sostegno esterno, in questo percorso è fondamentale la consapevolezza della persona ferita e la sua visione dell’esistenza. Per chi ha una fede religiosa, questa può essere un conforto: è di aiuto credere che la propria sofferenza abbia un valore superiore; che quanto accade, per quanto doloroso, rientri in un progetto divino. In una visione non teista come quella della filosofia buddhista è centrale la consapevolezza dell’impermanenza di ogni cosa, l’avere sempre presente che tutto quanto si è aggregato, partendo da ciò che è materia fino alle relazioni umane, è destinato a disgregarsi. È solo questione di tempo.
Una più compiuta consapevolezza dell’impermanenza si può sviluppare attraverso la pratica meditativa, ma non so dire quanto potrà immunizzarci dalla sofferenza che proviene dalla perdita dei nostri attaccamenti più profondi; certo permetterà di non farci cogliere di sorpresa e ci offrirà strumenti per attraversare il dolore senza restarne schiacciati.
In una società che sembra promettere l’annullamento di ogni sofferenza e reclama il diritto a un benessere senza turbamenti, si cerca sempre più di esorcizzare l’idea della morte e di rimuovere l’inevitabilità del dolore nella nostra esistenza, con l’effetto di renderci impreparati di fronte alle perdite e di voler minimizzare il tempo del lutto. In questo contesto diventa ancora più importante recuperare la consapevolezza della propria fragilità, lo spazio per l’ascolto di sé e la ricerca di una via di conoscenza che ci possa guidare quando il dolore della perdita entra nelle nostre vite.
Un ultimo aspetto da considerare è quello definito come lutto anticipatorio, con cui s’intende la risposta emotiva di fronte alla previsione dell’approssimarsi della morte per una malattia terminale. Benché nessuno possa ragionevolmente pensare che la vita si protragga all’infinito, la maggior parte di noi tende a rimuovere l’idea della propria morte come evento reale o almeno a spostarla illusoriamente in un astratto futuro. Questo tema però apre un discorso che merita di essere trattato separatamente.
Luigi Vitiello
Bibliografia minima
- Bormolini, G.: Accompagnatori e accompagnati – Ed. Messaggero 2020
- Felaco, R. & D’anselmo, F.: Amare in assenza – Kaizen 2016
- Frankl, V.: L’uomo in cerca di senso – Franco Angeli 2017
- Freud, S.: L’elaborazione del lutto – BUR 2013
- Jäger, W.: L’essenza della vita – La Parola 2007
- Namkhai, N.: Nascere Vivere Morire – Shang Shung 2007
- Recalcati, M.: La luce delle stelle morte – Feltrinelli 2022
Luigi Vitiello È studente di Chögyal Namkhai Norbu dal 1977 e con il Maestro si è formato come insegnante di Yantra Yoga e Meditazione. È medico e psicoterapeuta e ha conseguito un Master in Accompagnamento Spirituale nella malattia e nel morire.
È stato responsabile della Sezione di Medicina Tibetana dell’Istituto Internazionale Shang Shung di Studi Tibetani, di cui in seguito è stato direttore.
È autore di vari articoli sulla medicina tibetana e su argomenti di psicoterapia; tiene seminari e corsi su questi temi, sulla meditazione e sugli aspetti relativi al fine vita nella visione del Buddhismo Vajrayana e della psicologia occidentale.
Vive tra Napoli e Arcidosso.