Aspettando il miracolo

Raimondo Bultrini e Chögyal Namkhai Norbu passano un po’ di tempo a Nyaglagar, anche noto come Khamdogar, il luogo in cui viveva Changchub Dorje, situato in una remota valle del Konjo, nel Dege orientale, e incontrano i suoi nipoti.

Chögyal Namkhai Norbu indossa un mantello di Padmasambhava che appartenne a Changchub Dorje, assistito da Po Jo. Foto pubblicata per la prima volta su Il Venerdì di Repubblica.

Durante l’intero viaggio elaborò teorie e metto in pratica molti metodi per avere esperienza di queste dimensioni sconosciute. Nyaglagar sembra il luogo ideale per soddisfare la mia voglia di conoscere. Se Changchub Dorje è davvero così potente, dico a me stesso, prima o poi si manifesterà, magari sotto forma di visione, o forse chissà, di vibrazioni. Di notte spero in qualche apparizione nel sonno, di giorno scruto il cielo alla ricerca di segni speciali. Mi trovo nello spirito dell’occidentale che passa dal disincanto laico al dubbio, dallo scetticismo all’attesa del possibile miracolo.

Siccome, naturalmente, non succede niente, cado continuamente in profonde crisi dove metto in discussione tutto me stesso, il vero senso del viaggio, ciò che sto cercando. Generalmente mi capita di trovarmi in questi momenti vicino a Namkhal Norbu, che passa tutto il tempo libero dalle visite e dagli insegnamenti a leggere i testi del suo maestro, a voce bassa, come recitandoli.

A volte ho la sensazione netta che Rinpoche riesca a penetrare nei miei pensieri. Un giorno alza la testa, guardandomi con un sorriso amichevole. “Che cosa c’é?” chiede. Non ho il coraggio di parlare apertamente di tutto: “Pensavo alla fortuna che mi e capitata di poter stare qui – rispondo – ma non riesco a fare niente per meritarla, non parlo la lingua, non capisco ciò che dice questa gente, me ne sto fermo ore senza poter comunicare”. Rinpoche continua a leggere il libro e con una battuta dichiara chiuso l’argomento, liberandomi dal peso di pensieri che non riesco più a controllare: “Chi è fortunato non ha proprio niente da fare”, dice.

Pochi giorni dopo, sopraffatto nuovamente dalla tensione, ho in mente di ribaltare, dopo ore ed ore di solitudine e silenzio, tutto il castello delle mie precedenti teorie sulla saggezza delle filosofie orientali, tutti i miei autoconvincimenti sul potere delle divinità buddhiste, sui principi dell’energia yoga, degli Insegnamenti, sul lama. Penso che in fondo la figura familiare del Cristo è più che sufficiente per soddisfare, quale esempio di uomo compassionevole, tutte le mie esigenze spirituali.

Più medito su questo, e più provo una specie di orgoglio per l’unicità del messaggio cristiano, anche in questi altipiani dove la figura di Gesù è quasi sconosciuta. Seduto sul mio tappeto con una tazza di tè e lo sguardo rivolto alla vallata dove il cielo alterna piogge e schiarate, sento la voce di Rinpoche improvvisa: “Su che cosa stai meditando?” chiede.

Ancora una volta mi sento praticamente nudo, scoperto nei miei pensieri più intimi. Mi sembra impossibile che possa leggerli come un libro aperto, ma è questa la sensazione immediata che non mi era mai capitato di provare e che invece sperimento, precisa, netta, inconfondibile.

Non rispondo subito, nell’imbarazzo e nella sorpresa in cui mi trovo. “Riflettevo sull’orgoglio – mi limito a dire, nascondendo maldestramente tutto il resto – i pensieri vengono uno dietro l’altro. È facile immedesimarsi in quello che passa attraverso la mente”.

“L’orgoglio – mi dice Rinpoche – quando è riconosciuto come origine delle emozioni negative, può essere autoliberato, sciogliendo la tensione che ne è la conseguenza. Perché l’orgoglio, come la gelosia, l’invidia, la rabbia e ogni altra passione, quando non è governata dalla presenza, ostacola la conoscenza della vera natura delle cose.”

“Ma quando i pensieri disturbano, come mosche che non riesci a scacciare – insisto, ormai fingendo che fosse davvero solo questo l’oggetto delle mie riflessioni – come si fa ad avere questa presenza?”

“Da dove vengono i pensieri? E dove vanno? Prova a guardare…”

“Non ne ho idea, veramente. Credo che non arrivino da un luogo preciso”.

“Non basta analizzare, devi sperimentare in pratica. Solo dopo puoi dire: ah, ecco, ho trovato, oppure no, non ho trovato niente”.

Finisco il mio tè e salgo verso la grotta dove Changchub Dorje dava insegnamenti, e dove scoprii la speciale terra rossa con la quale fabbricava zaza e medicine. Mi fermo davanti a un trono di pietra usato dal maestro durante gli insegnamenti e cerco di svuotare la mente, lasciandola seguire soltanto il ritmo del respiro.

Teoricamente so che la regola di una buona meditazione è di osservare i pensieri mentre passano, non di eliminarli. Sono come uccelli che non lasciano traccia nel cielo, non bisogna né inseguirli né soffermarsi a guardarli. Il Maestro ha detto di osservare il punto dove nascono e dove spariscono, ma io non mi rendo nemmeno conto del momento in cui finisce un pensiero e ne comincia un altro. Devo concentrarmi meglio. Ecco, un nuovo pensiero passa nella mente, eccone un altro e un altro ancora. Non ho la minima idea di dove vengano, però mi sento molto più rilassato.

Purtroppo, è una sensazione che dura poco. In qualche angolo della mente c’è un pensiero ricorrente, il desiderio di ricevere un segno da questo luogo che tutti dicono magico e pieno di potere.

È un’idea che cresce e si sovrappone alle altre. “Non devo aggravare la situazione – mi dico – devo fare in modo che vada via”. Ma non se ne va, anche quando ho l’impressione di esserci riuscito, dopo un po’ ricompare. Allora comincio a cantare il mantra che proprio Changchub Dorje aveva trasmesso a Namkhai Norbu, il Canto del Vajra insegnato ai monaci di Galen.

Concentro i sensi soltanto sulle vibrazioni che il suono produce all’interno del corpo, e nello spazio interno le tensioni si sciolgono portando la mente in uno stato di fissità dove tutto sembra restare sospeso, immobile. Improvviso, come un pesce che salta nell’acqua, arriva un pensiero, un rumore. Passa, e per un istante non turba la quiete di questo stato. E’ la sensazione di un attimo, l’esperienza fuggente di qualcosa che potrebbe e dovrebbe protrarsi ogni istante.

Torno indietro passando dalla casa di Palden, il più giovane dei nipoti di Changchub Dorje. L’abitazione è al secondo piano del palazzo dove si trova il grande tempio rimasto quasi intatto. Si sale la solita scala di legno per raggiungere un ballatoio all’aperto con un’unica grande stanza dove trovo Namkhai Norbu insieme a Sonam Palmo, Puntsok e molti membri della famiglia del lama di Nyaglagar.

La morte di Mikyod

Rinpoche, Palden, il figlio minore di Changchub Dorje, e Po Jo.

È ora di pranzo e veniamo fatti sedere dietro le basse panche dipinte dove si trovano le offerte di cibo. Alle pareti sono appese molte tangka, e alcune riproducono sicuramente il maestro. Una in particolare colpisce per la sua bellezza. Il fondatore di Nyaglagar è dipinto come uno yogi danzante, e dal suo corpo si dipartono a raggiera fasci di luce colorata dall’intensità ipnotica. Sotto c’è un oggetto che sembra un paralume di carta, ma in realtà è un cilindro che ruota continuamente su sé stesso senza alcun meccanismo. Semplicemente con una piccola spinta iniziale riesce a sfruttare la giusta inclinazione e la velocità acquistata per lungo tempo. Un marchingegno che serve a far ruotare i mantra iscritti all’interno, quindi a far muovere simbolicamente in avanti la “ruota” dell’Insegnamento.

È lo stesso principio del piccoli mulina di preghiera con il mantra OM MANI PADME HUM (*) che i tibetani tengono in mano e che fanno ruotare in senso orario per ore ed ore, oppure di quelli grandissimi dei templi, mossi anche questi dai fedeli. Analogo è il significato delle stesse bandierine da preghiera, esposte al vento per offrire attraverso l’elemento più mobile del creato il beneficio delle parole sacre da diffondere in ogni luogo.

Il cibo nella casa di Palden è abbondante, con molta carne secca che si scioglie quasi in bocca. Comincio a riconoscere i pezzi migliori, evitando così di tagliare quelli che non riesco a masticare. La carne qui è più morbida che a Galen perché siamo più in basso, e il clima è meno secco. Anche il sapore è migliore, ma non si conserva altrettanto a lungo.

Mi rendo conto che con questa alimentazione è quasi impossibile mangiare distrattamente, dimenticando ad esempio che ci si sta nutrendo di un animale. La striscia di carne dura come pietra, infatti, al contatto con la saliva si ammorbidisce e libera il sangue dell’animale. E’ una sensazione di caldo, di nervi tesi, di vita che torna a fluire in quel pezzetto di yak. I tibetani recitano mentalmente un mantra a beneficio dell’essere che li sta nutrendo, e credono che la giusta intenzione, autenticata dal mantra adatto, produrrà una causa spirituale per una sua prossima, migliore rinascita.

Durante il pranzo, in segno di grande rispetto, viene portata a Namkhai Norbu la “kapala”, la calotta cranica del teschio da Mikyod, il figlio del maestro ucciso dai cinesi. Rinpoche la rigira tra le mani, e mi traduce la storia che gli hanno raccontato i vecchi monaci. Mikyod, che viveva in un villaggio vicino, doveva essere preso dai militari e processato come controrivoluzionario. Ma lui non voleva seguirli per entrare in un campo di concentramento o in carcere, e così scappò verso la foresta inseguito dai cinesi che presero a sparargli contro senza riuscire a colpirlo. Tuttavia, a un tratto Mikyod decise di fermarsi, si sedette, si tolse dal collo tutte le protezioni e fu ucciso.

I rivoluzionari arrivarono a Nyaglagar da Qamdo, raccontano. Ma il villaggio era troppo distante e faticoso da raggiungere, sia pure a cavallo. Per questo vennero in pochi e se ne andarono quasi subito, senza completare l’opera di distruzione, com’era avvenuto quasi ovunque intorno. Si limitarono ad abbattere le punte dei chorten lasciando intatte le basi, a bruciare qualche tangka e i pochi libri d’Insegnamento rimasti nei monasteri e nelle case. Il grosso dei manoscritti fu infatti nascosto nelle grotte dei dintorni.

Proprio sopra all’abitazione di Palden c’è una delle biblioteche con centinaia di testi ammucchiati uno sull’altro. Ci sono anche gli insegnamenti di Changchub Dorje trascritti da Namkhai Norbu più di trent’anni fa.

Veniamo invitati a salire su una terrazza dove un grande abbaino affrescato con figure di maestri manda fasci di luce nel tempio. Sul muro di una stanzetta quasi completamente buia danzano figure di scheletri e grandi animali feroci. Dev’essere la stanza del chöd, il rito che viene praticato anche nei cimiteri. Osservo le macabre figure della danza e penso che in fondo ogni angolo di questo villaggio, ogni momento trascorso qui sembra imporre una riflessione sulla costante presenza della morte.

Lama Karwang

I nipoti del fondatore di Nyaglagar regalano a Rinpoche molti scritti della biblioteca, e tra questi alcuni piccoli preziosi quaderni. Contengono i consigli che molti lama e yogi hanno ricevuto da Changchub Dorje per migliorare la loro pratica. Vi si spiega come apprendere, sviluppare e stabilizzare la contemplazione.

Un maestro sa esattamente quando lo studente è pronto ad affrontare un certo passaggio nella pratica, anche se apparentemente non esistono segni che dimostrino una realizzazione spirituale. Il nipote più anziano di Changchub Dorje è lama Karwang. Nonostante il relativo potere che gli deriva dall’essere la guida spirituale del villaggio, io vedo l’uomo semplice che sembra quasi camminare in punta di piedi tanto è silenzioso e discreto.

Non mi viene subito in mente, osservandolo, che questa semplicità possa essere il frutto di una lunga pratica interiore. Karwang mi regala una sua fotografia, piccolissima, dove siede a gambe incrociate su un prato, e ne chiede una mia. Osservo a lungo la sua foto, così come spio i suoi movimenti durante le ripetute visite alla nostra stanza, o mentre passeggiamo nelle strade polverose del villaggio.

Vorrei forse scoprire il segreto del suo muoversi leggero, senza mai un movimento brusco, sgraziato, senza un tono di voce troppo alto. Dal suo viso non traspare ansia, né tensione. È serio, oppure allegro, ma mai preoccupato, irato. In fondo, sembra avere le reazioni di un bambino.

Con un’espressione divertita gli piace molto ascoltare le mie letture delle trascrizioni fonetiche del mantra. Spesso chiama i fratelli per assistere al piccolo prodigio di quei segni stranieri che corrispondono al loro alfabeto, e mi invita a ripeterli più volte. Sembra contento di sentirmi parlare tibetano, e non capisce perché, oltre a leggere mantra non imparo anche a conversare.

È un altro dei motivi di rammarico per non essere riuscito a impegnarmi nello studio di questa lingua. Sono sicuro che Karwang avrebbe molte cose da insegnarmi, e spero che un giorno, se le circostanze lo permetteranno, potrà venire in Occidente. Chissà se riuscirebbe a mantenere la stessa serafica calma alle prese con la burocrazia e lo smog, l’orologio e il computer?

Il valore di Karwang, secondo Rinpoche, sta anche nella sua conoscenza dottrinale e spirituale. Il giovane lama ha scritto molti testi, e pare che dimostrino un elevato grado di conoscenza. Non a caso è lui il più rispettato e stimato dei nipoti di Changchub Dorje. Un riconoscimento, questo, che acquista maggiore valore se si considerano le doti non comuni degli altri nipoti. Hanno tutti, infatti, una carica di umanità e di simpatia davvero rare, scherzano con tutti, e sono circondati in ogni momento da frotte di bambini che evidentemente amano giocare con loro.

I Nipoti del Maestro

Il più giovane, Palden, ha 25 anni, un viso largo e fisico robusto. La mia simpatia per lui è legata a un gesto che non avevo mai visto fare in Cina e nemmeno in Tibet: lo vedo prendere la mano della sua giovane moglie. Può sembrare strano che un fatto così normale mi colpisca tanto, ma questa espressione dei sentimenti d’amore, così comune in Occidente, qui mi manca un po’, nonostante la grande dolcezza e affettuosità spontanea dei tibetani.

L’altro nipote, il secondo per età, è Po Jo, figlio di Mikyod. Ha una trentina d’anni, è magro, con due occhi tondi mobilissimi e il mento leggermente rientrante. Il suo aspetto diventa molto buffo quando indossa un cappelletto di lana rotondo che accentua i tratti marcati del viso. La sua casa è forse la più frequentata nei giorni della nostra permanenza, perché qui Namkhai Norbu dà insegnamenti alla gente del villaggio.

Monaci del monastero di Changchub Dorje a Nyaglagar ed eremiti dimoranti nelle caverne danno il benvenuto a Rinpoche.

Non tutti riescono a entrare all’interno, perché la stanza non è grande a sufficienza, con i suoi due angoli per i tappeti delimitati come al solito dalle panche per le offerte ed il cibo, le colonne centrali di legno che dividono ulteriormente lo spazio e il soffitto chiuso da grandi soppalchi dov’é ammassato un po’ di tutto. Il posto d’onore spetta all’altare, dove sono esposte molte fotografie, tra le quali quelle di Namkhai Norbu e di suo figlio Yeshi, spedite evidentemente per posta anni prima, tangka ed immagini sacre, soprattutto di Changchub Dorje.

Sorprendentemente, messa in un angolo, scopro una grande radio stereo cinese. È l’unica casa in tutto il Tibet orientale dove vedo qualcosa del genere. Non è certo strano, perché a due giorni di cavallo ci sono i capoluoghi abitati da molti cinesi. Ma ciò non toglie che nella mia visione bucolica del Tibet questi oggetti, compresi gli orologi che portano al polso alcune khampa e gli stessi nipoti di Changchub Dorje, sembrino appartenere a un altro mondo.

Il figlio di Mikyod è chiaramente innamorato di Puntsok e passa molte ore nella nostra stanza a corteggiarla, senza successo a quanto mi pare di capire. Per lei – e di conseguenza anche per me e Sonam Palmo – Po Jo porta sempre caramelle, dolcini e qualche volta semi d’orzo abbrustoliti. La corteggia raccontando storielle che io non riesco a capire, ma che sicuramente sono comiche perché le due donne ridono molto tra loro.

C’è da dire che Puntsok e Sonam Palmo non hanno bisogno di ascoltare storielle per essere d’umore allegro. Tranne i momenti di commozione per qualche situazione particolare, madre e figlia scherzano spesso, e il loro rapporto e quello di due amiche adolescenti. Camminano sempre mano nella mano, con un’intesa perfetta, tanto che a Chengdu non avevo affatto capito di aver viaggiato per molti giorni insieme alla vera madre di Puntsok, con la quale la mia giovane compagna di viaggio aveva un rapporto assai più formale.

Po Jo si è innamorato subito di questa ragazza, ed è pronto a offrirle la sua casa, una delle più belle del villaggio, la sua radio stereo e quant’altro lei possa desiderare. Ma Puntsok non sembra affatto dell’idea di sposarsi, per di più non ama molto Nyaglagar. Preferisce Galen, e non vede l’ora di tornarci. Così il giovane lama laico deve contentarsi di scherzare con lei, e sopportare la candida ironia di Sonam Palmo.

Continua nell’edizione di giugno di The Mirror

Parte 1 – Chögyal Namkhai Norbu a Chengdu
Parte 2 – Background dei viaggi in Tibet
Parte 3 – Verso Derghe
Parte 4 Da Galenteen alla valle Lhalung
Parte 5 – Sulla strada per Nyaglagar
Parte 6 Il Maestro del Maestro
Video di Chögyal Namkhai Norbu in Tibet 1988