Raimondo Bultrini prosegue il racconto dei viaggi e delle esperienze compiute con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. Sono nel Dege orientale, a Nyaglagar, la residenza di Changchub Dorje, maestro radice di Rinpoche.
La grotta dei Mamo

Una thangka che raffigura Changchub Dorje.
I giorni nel villaggio del maestro di Namkhai Norbu passano veloci. Molta gente viene a visitarci, ma spesso anche noi usciamo a passeggio. In una splendida giornata di sole incamminiamo verso un monastero di monache distrutto da anni. Durante il tragitto fino alle ultime case si forma una gran calca e decine di persone ci seguono in corteo.
Ci sono anche le monache, tra le quali alcune molto vecchie, costrette a vivere tutte insieme in case piccolissime, mentre avrebbero bisogno di isolamento e concentrazione per mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti da Changchub Dorje.
Lungo la strada la processione dei nostri accompagnatori gira intorno a un chorten cantando e danzando avvolta dal fumo di sang, poi supera un ponte di legno miracolosamente sospeso sul fiume che scende a valle.
Giunta in alto, tra gole rocciose come canyon, Namkhai Norbu mi indica un luogo di potere, una piccola grotta sacra al Mamo, una tra le più potenti classi di Yidam protettori. “Qui potresti creare qualche buona causa per gli altri esseri”, mi dice Rinpoche.
Mentre il corteo prosegue verso il monastero, entro nell’incavo dove c’è spazio soltanto per una persona seduta. Mi sento abbastanza orgoglioso. Come se avessi ricevuto un incarico molto importante, il mio primo incarico “spirituale” in Tibet. “Creare una buona causa”, nel gergo buddhista, significa
fare una pratica spirituale con l’intenzione di offrire ad altri esseri senzienti l’opportunità di incontrare gli insegnamenti in modo da potersi liberare dal ciclo delle rinascite e quindi dalla sofferenza. Ma davvero la mia pratica può aiutare qualcun altro, addirittura esseri che nemmeno conosco?
Non so perché, però sento che potrebbe essere così. Credo di essere stato “iniziato” a un sentiero che porta verso un’unica direzione, a realizzare la mia vera condizione e natura. “Iniziare” significa proprio cominciare. E da quando ho cominciato questo sentiero ho come la sensazione di mille occhi e mille orecchie che mi osservano e ascoltano. Particolarmente qui, tra queste grotte attraverso le quali anche le montagne sembrano vedere e sentire.
La mia meditazione è un’offerta a queste entità attraverso i sacri suoni dei mantra e i mudra trasmessi da secoli per comunicare in una specie di esperanto multidimensionale, in grado di essere compreso anche dai puri spiriti. Ma ecco come al solito i pensieri, a disturbare e innervosirmi.
L’orgoglio: essere qui, stimato come discepolo di Rinpoche, circondato da affetto e attenzione, corrisponde a un preciso disegno, a una predestinazione? E’ questa terra a ispirare un significato superiore a ogni evento della vita. Ogni privilegio diventa ai miei occhi l’espressione di un merito acquisito.
L’ignoranza: se davvero così fosse, perché dentro questa grotta ti senti confuso e impotente? Che cosa stai facendo qui? Recito i mantra automaticamente, la mente segue i pensieri, non sono concentrato con tutti i miei sensi sull’essenza di ciò che sto facendo e tutto perde valore.
Sono costretto a uscire dalla grotta e i pensieri mi accompagnano, ma ora c’è la distrazione del paesaggio che si apre davanti agli occhi. Il fiume solca la valle tra due gole ampie di monti che degradano verso l’orizzonte, e il villaggio termina con piccole coltivazioni su terrazze. Le rocce, rosse come un tramonto, sembrano scolpite per alimentare la fantasia popolare, che anche qui, come Galen, vi vede sembianze di cavallo.
Passeggio insieme al maestro e ai nipoti di Changchub Dorje vicino ai grandi chorten bianchi del villaggio. Qualcuno si avvicina per una benedizione, altri si limitano a sorridere abbassando il capo con le mani giunte davanti al viso, altri ancora mostrano la lingua secondo l’usanza antica sopravvissuta – a quanto pare – dall’era di passaggio tra buddhismo e bon. Succedeva infatti – raccontano – che i seguaci del bon, nelle fasi dure della persecuzione religiosa, venissero riconosciuti dal palato annerito per via del continuo recitare preghiere e mantra. Bon vuol dire “recitare”, e i fedeli più osservanti non facevano altro dalla mattina alla sera. Così, per dimostrare la propria estraneità alle pratiche dell’antica religione sciamanica, si esibiva la lingua a funzionari e dignitari.
I simboli del lama
Già prima della morte Changchub Dorje era considerato una specie di santo. Ma dopo che ebbe lasciato il suo corpo, nel preciso istante in cui morì insieme alla sua seconda moglie, il maestro di Nyaglagar venne, come diremmo in Occidente, beatificato. I dipinti lo ritraggono quindi nelle vesti simboliche di tutte le divinità del pantheon buddhista, con gli oggetti rituali, le aureole, nelle movenze delle pratiche tantriche, dove ogni gesto ha un significato preciso per gli iniziati al segreti della pratica.
Un gruppo di thangka è ancora da colorare, ma molte sono già complete, con toni variopinti e luminosi. In generale questa dipinti non ritraggono soltanto una figura. Si tratta sempre di mandala, rappresentazioni che corrispondono a un contesto nello stesso tempo particolare e universale. Il disegno rappresenta sempre l’individuo al centro della condizione relativa di esistenza. Intorno alla divinità, al realizzato, allo Yidam o protettore ruotano quindi figure significative, che appartengono alla stessa classe, famiglia, o che rappresentano diverse manifestazioni dell’essere, pacifiche e terrifiche, gioiose o irate, sedute o danzanti, ferme o in movimento. La prospettiva è sempre frontale, e le figure minori sono disposte a corona intorno a quella principale, ne esaltano l’importanza.
Changchub Dorje è raffigurato in ogni possibile modo, circondato dai figli, praticanti anche loro e principali discepoli del lama, dai suoi maestri, dai suoi contemporanei famosi, e naturalmente dalle divinità. In tutto ho contato almeno un centinaio di thangka dedicate al maestro, e non meno numerosi sono gli oggetti rituali e le reliquie più importanti accuratamente conservate.
Insieme a “mala” di ogni grandezza, a contenitori per le medicine, pietre, abiti, e ogni altra cosa con cui avesse avuto contatto, persino gli occhiali, sono conservati il dorje e il phurpa, gli oggetti rituali con i quali è più frequentemente rappresentato nei disegni esoterici, a illustrare le sue principali realizzazioni.
Il dorje rappresenta il principio maschile, lo scettro simbolico del potere di un regno che non declinerà mai, la forza indistruttibile dell’energia primordiale che – come un fulmine – attraversa lo spazio e il tempo. La sua parte superiore e quella inferiore sono identiche, generalmente con cinque raggi e punte: un lato simboleggia la visione samsarica di sofferenza, l’altro la visione nirvanica di felicità. Significa anche spirito e materia, verità assoluta e relativa, ma il valore supremo riferito al dorje è quello della immutabilità della perfetta condizione originaria, a prescindere dal cambiamenti delle circostanze nel tempo.
Al centro dei dieci raggi corrispondenti da una parte alle cinque passioni e dall’altra alle corrispettive saggezze sta una sfera di cinque colori chiamata in tibetano thigle. Da qui partono le visioni e qui si manifestano: è l’energia primordiale che tutto muove, eternamente.
E’ questo, sicuramente, l’oggetto rituale più importante dell’esoterismo tantrico tibetano. Ha lo stesso significato dell’antichissimo simbolo Bön della svastika, presente in molte altre culture religiose e svilito dal vergognoso sfruttamento che ne ha fatto il regime nazista.
Il phurpa è un coltello a forma di cuneo con quattro lati. Affonda alle radici dell’attaccamento degli uomini e arriva al centro dell’obiettivo muovendo da tutte le direzioni cardinali. Cosi, con il dorje sulla destra e il phurpa nella sinistra, Changchub Dorje rappresenta la realizzazione di un insegnamento giunto a lui immutato attraverso i millenni.
Tra gli oggetti conservati c’è anche un damaru, il piccolo tamburo rituale a due facce munito di fili alle cui estremità si trovano le palline che percuotono la pelle: il suonatore fa ruotare il polso per dare il ritmo. Sonorità e dimensioni del damaru variano a seconda del tipo di pratica. Il damaru più usato da Changchub Dorje è specifico per il Chöd, una delle pratiche più segrete e interessanti del buddhismo tibetano, divulgata da una maestra vissuta in epoca relativamente recente, Machig Labdrön.
Esistono molti tipi di pratica del Chöd, ma il principio è per tutti lo stesso, cioe di “tagliare”, come dice la stessa parola tibetana, di recidere alla radice ogni attaccamento, a cominciare da quello verso se stessi, alla propria persona.
Con questa intenzione il praticante del Chöd offre in pasto il suo corpo fisico, la sua mente, ogni sensazione, energia, tutto ciò che possiede a spiriti e divinità. Per invitarli al macabro banchetto usa damaru e trombette ricavate da ossa di animali. Poi utilizza visualizzazioni e mantra in grado di comunicare a questi esseri la sua intenzione e di “autenticare”, di rendere sacro, il proprio sacrificio. Come Buddha offrì il suo corpo in pasto alle tigri per alleviare la loro fame, così il chödpa mette a disposizione interamente se stesso per il beneficio di tutti gli esseri.
E’ una pratica che richiede molta concentrazione e che sviluppa il massimo delle sue potenzialità in luoghi particolari, come i cimiteri tibetanl, dove i cadaveri vengono lasciati allo scoperto e abbandonati in pasto agli avvoltoi.
Tutto avviene naturalmente nella visione del chödpa mentre – tranquillamente seduto – invita spiriti e divinità con i suoni degli strumenti rituali. Sempre nell’immaginazione intorno al suo corpo inizia una danza di mostruose figure fameliche e come se non bastasse la pratica si dovrebbe svolgere idealmente nei cimiteri, in modo da creare le più forti sensazioni possibili. Si segue così il principio tantrico che affida a ogni movimento – sia fisico che psichico o emotivo – una particolare produzione di energia. Questa energia è il combustibile per raggiungere livelli sempre superiori di esperienza.
Vincere la paura della morte, evocandola con gran fracasso di tamburi e campanelli nel bel mezzo di un cimitero, e un sistema sicuramente originale ma difficilmente applicabile in Occidente.
L’unione yab yum
Sono molti gli insegnamenti di cui vengo a conoscenza direttamente o indirettamente, soprattutto qui a Nyaglagar, perché è come trovarsi un po’ alla sorgente delle conoscenze trasmesse da Namkhai Norbu in Occidente attraverso seminari, libri, ritiri spirituali. Lo stesso maestro sembra ritrovare l’antico entusiasmo del discepolo nella lettura del testi che gli eredi di Changchub Dorje gli offrono, tirandoli fuori qua e là, dalle loro case, dalla biblioteca del tempio.
Tra questi c’è un piccolo libretto con la copertina rossa, l’ultimo scritto prima della sua morte. Si chiama “Autoliberazione attraverso le sensazioni”, ed è interamente dedicato alle pratiche sessuali legate al controllo dell’energia psicofisica. Namkhai Norbu dice che è molto interessante, e io sono naturalmente incuriosito, ma devo accontentarmi di sapere che un giorno, forse, sarà tradotto. Il titolo richiama il tipo di insegnamento al quale si referisce il testo. Il principio dell’autoliberazione è Dzogchen, lo stato naturale dell’individuo. Non essendo di per se un metodo, si serve di tutti i metodi.
Quello indicato da Changchub Dorje nel libretto rosso, prima di lasciare questo mondo, si riferisce al sesso, quindi tra i più piacevoli da mettere in pratica (anche se ovviamente il sesso e qui visto solo come uno strumento di realizzazione spirituale). Si tratta con tutta probabilità di tecniche per integrare la forte energia messa in movimento con l’atto sessuale nello stato di contemplazione.
E’ una caratteristica di molte religioni e filosofie orientali quella di utilizzare questi metodi per raggiungere livelli superiori di conoscenza. Ma molti sentono parlare di Tao del sesso, ad esempio, e pensano che occorre trattenere il seme inibendo l’orgasmo. Qualcuno magari cerca con grande leggerezza, dopo aver sfogliato un libro sull’argomento, di mettere in pratica ciò che ha letto, rischiando così di crearsi seri problemi.
Rinpoche mi spiega che, “Solo anni e anni, di pratica, con un partner affiatato e sotto la guida di un maestro esperto, si puo dominare e concentrare il flusso delle sensaziona nel giusto modo”.
L’integrazione nello stato naturale avviene infatti attraverso canali sottili di energia che il praticante deve imparare a riconoscere, istruito e guidato. Il fine non è l’appagamento fisico, ma la realizzazione della cosiddetta unione di chiarezza e vacuità. E’ questo il riconoscimento dello stato naturale di ogni individuo.
L’atto sessuale tra uomo e donna viene anche presentato come unione (yab yum) del principio maschile, il metodo, con quello femminile, l’energia. Il metodo, da solo, non può portare ad alcuna realizzazione, e così l’energia.
Molte figure yab yum pacifiche e anche terrifiche affrescano le pareta del tempio di Nyaglagar, a indicare la natura divina di queste pratiche di cui gli uomini hanno perso la conoscenza.
Tutte le immagini di maestri e Yidam della tradizione figurativa tibetana offrono un’interpretazione visionaria che trascende il solo livello artistico, la rigida ripetizione di forme e gesti. Il tempio è quasi sempre vuoto, e cosa ci rechiamo là spesso insieme a Namkhai Norbu cercando la luce giusta per fotografare i grandi dipinti che riempiono ogni angolo di parete, tutti realizzati durante la vita di Changchub Dorje sulla base delle sue esperienze e visioni.

Immagini nel tempio presso il villaggio di Changchub Dorje.
Un giorno finalmente scopriamo l’ora giusta per le riprese, quando il sole batte trasversalmente dall’apertura superiore illuminando i muri ricchi di colori. Più di tutte colpisce la pittura di Ekajati. Il suo corpo e nero e sinuoso, con le braccia tese e l’unico occhio splendente al centro della fronte. Grande quasi come un uomo, la figura è avvolta dalle fiamme e l’insieme manifesta una vitalità sorprendente.
Guardando questa immagine, tutto il resto sembra entrare in movimento, come una lenta, emozionante danza di mostri proiettata sulle pareti da un’invisibile telecamera. La luce del sole offuscata dalle nuvole va e viene dal soffitto come i fari psichedelici di un locale notturno, ma senza alcuna musica, senza rumore.
Molto più inquietanti sono gli affreschi del piccolo tempio dedicato alle divinità terrifiche, dove le figure dipinte in oro risaltano sullo sfondo nero e sembrano uscire da un incubo. Entro per la prima volta con un gruppo di bambini che indicano l’ingresso, una porta piccolissima dove bisogna abbassarsi per passare, e mi invitano a sedere sul cuscino davanti al leggio e al piccolo altare, come fossero loro i padroni di casa.
Mi guardo un po’ attorno, e presto entra uno dei vecchi monaci che fu discepolo di Changchub Dorje. E’ l’ora del rito delle divinità guardiane raffigurate così intensamente su questi muri il monaco mi invita a restare.
Mi chiede se voglio accompagnarlo usando il tamburo, mentre lui recita il rito suonando il campanello, altro simbolo dell’energia nello stato primordiale. Il tamburo e molto grande, viene percosso con un femore provocando un suono basso e profondo, sicuramente quello che sentiamo tutte le notti.
Sono presto costretto a interrompere i miei tentativi di indovinare il ritmo, perché – senza comprendere la lingua e momenti di piu intensa invocazione – finisco con il drammatizzare o enfatizzare nel momento sbagliato, e batto magari fiaccamente sul tamburo quando il testo prevede l’ingresso e l’intervento degli spiriti invocati.
Molte pratiche religiose somigliano ai rituali sciamanici, perché ne sono senza alcun dubbio figlie. La ricerca del rapporto con il mondo dello spirito nasce da un’esigenza forte e profondamente umana di capire, al di là dell’apparenza. Per i tibetani il dialogo con quelle entita che non vediamo materialmente ma che sono in contatto con noi nelle mille forme visibili e invisibili, deve avere un suo linguaggio, i suoi codici d’accesso nella natura stessa.
Se un cane vuole comunicare con noi, usa particolari forme d’espressione. Così noi utilizziamo parole, gesti, disegni e – soprattutto – la mente, sia per trasmettere che per ricevere messaggi. I mantra, le invocazioni, i riti, sono frutto dell’esperienza antica di molti uomini che prima di noi hanno sentito la stessa esigenza di comunicazione. E che ingiustamente o superficialmente sono stati giudicati per molti anni stregoni, o sciamani in senso dispregiativo, sia dagli occidentali che dagli stessi buddhisti.
In epoche ormai remote, questo è vero, con grande ignoranza e scarsa considerazione della vita in molte parti del mondo – Tibet compreso – si compivano sacrifici animali e umani (e ancora oggi, per fortuna raramente, in qualche angolo del mondo se ne compiono). Ma poi si è pensato che gli stessi risultati, per ottenere il favore del cielo, potevano essere raggiunti usando simbolicamente immagini, statue, come ha insegnato Shenrab Miwoche, riformatore del Bön tibetano.
Proseguendo nel cammino della conoscenza, lentamente, l’umanità potrebbe scoprire che non serve nessun canto, nessuna preghiera, ma un reale stato di contemplazione per ottenere la pace con gli esseri di tutte le dimensioni.
Continua su The Mirror
Parte 1 – Chögyal Namkhai Norbu a Chengdu
Parte 2 – Background dei viaggi in Tibet
Parte 3 – Verso Derghe
Read Part 4 From Galenteen to Gheug, the master’s birthplace
Parte 5 – Sulla strada per Nyaglagar
Read Part 6 The Master’s Master
Parte 7 – Aspettando il miracolo
Video di Chögyal Namkhai Norbu in Tibet 1988
Immagine: Il damaru che apparteneva a Changchub Dorje.