Gino Vitiello
Spiritualità e malattia sono temi più vicini di quanto possa sembrare. Quando siamo in uno stato di buona salute, questo sembra essere la condizione “naturale” dell’esistenza, e lo è… fino a quando dura, ma non può durare ininterrottamente.
Nella visione buddhista uno degli aspetti fondamentali è l’impermanenza: nulla è per sempre, tutto è trasformazione. Quindi anche il fisiologico stato di salute, quando c’è, non può durare per sempre e bisogna essere pronti ad accettare che prima o poi subiremo, in forma più o meno grave, una malattia. Nel momento in cui scopriamo che il corpo è malato, si ammala tutto il nostro essere, dato il naturale attaccamento che abbiamo verso questo corpo, la parte di noi con cui più facilmente ci identifichiamo.
Come reagiamo di fronte a una grave malattia? C’è chi la percepisce come una fatalità, chi come un castigo divino, altri ancora come una forma di ingiustizia subita dalla vita. Tutte queste reazioni tendono a spostare l’attenzione dall’elementare verità: una malattia è la rottura di quell’equilibrio di funzioni da cui dipende la salute e che per una varietà di possibili cause si è alterato, inducendo così il manifestarsi di qualche patologia.
Una consapevole presenza mentale, che è alla base di molte vie spirituali, può aiutarci a riconoscerla anche come un messaggio, un segnale che ci dice di cambiare qualcosa nel nostro modo di vivere. Il dott. Eduard Bach, lo scopritore della floriterapia che porta il suo nome, diceva che la malattia è spesso l’ultimo mezzo a cui la nostra anima, il nostro sé profondo, ricorre per farci riconoscere i nostri comportamenti sbagliati o il tradimento che stiamo facendo verso noi stessi nella vita.
Esiste inoltre una stretta interazione tra corpo e mente: se è noto che un male fisico si riflette inevitabilmente sul tono dell’umore, anche un malessere emotivo, una depressione prolungata, un’insoddisfazione della propria vita si manifesterà con effetti sul corpo, spesso attraverso un disturbo del comportamento e/o dell’alimentazione, che a loro volta generano altri problemi di salute.
Quando si manifesta una malattia è importante reagire, ma è soprattutto necessario capirne la causa, non solo quella superficiale. Sono molte le persone che escono trasformate positivamente da una grave malattia se hanno saputo accettarne l’esistenza e comprenderne il significato.
A volte le terapie mediche o la capacità di reazione del fisico non sono sufficienti alla guarigione: allora è necessario trovare risorse su un piano più profondo. Per fare questo però bisogna aver già sviluppato una visione spirituale della propria esistenza. Se durante la vita avremo coltivato solo agli aspetti materiali, sarà difficile affrontare nel modo migliore la sofferenza che la malattia comporta e anche la morte, che prima o poi comunque arriverà trovandoci impreparati. Il rapporto con la propria dimensione spirituale però non è cosa facile da recuperare all’ultimo momento, magari spinti dalla paura. Se non si comincia quando abbiamo ancora tutte le nostre facoltà, poi sarà molto più difficile. Tutti dovremmo allenarci, almeno dopo essere entrati in quella che viene definita come età matura, a considerare il nostro corpo come una casa che dovremo inevitabilmente abbandonare insieme a tutto quello che abbiamo accumulato nella vita.
La fede in una divinità compassionevole può essere di grande aiuto e questo non vale solo per le religioni teiste. Anche nel buddhismo vi sono manifestazioni della compassione, come Tara, o altre connesse alla potenzialità di lunga vita ed esistono specifiche pratiche per riceverne i benefici. L’insegnamento buddhista però, e in particolare lo Dzogchen, attraverso le pratiche meditative ci guida soprattutto ad allenare la consapevolezza dell’impermanenza e ci porta a scoprire la vera natura del nostro essere, andando oltre l’aspetto limitato di quel piccolo ‘io’ con cui ci identifichiamo. Riconoscere questa natura originaria significa uscire dalla condizione di ignoranza da cui derivano le esistenze condizionate e ottenere la definitiva liberazione dalla sofferenza del samsara.
Quanto al ruolo del medico, la sua attuale formazione credo risenta della moderna percezione dicotomica tra scienza e spiritualità. La pratica della medicina contemporanea è quasi inconcepibile senza una visione specialistica: questa ha l’indubbio il vantaggio di formare professionisti in grado di potersi aggiornare costantemente sui continui progressi offerti dalla ricerca scientifica. Ha però il limite di prendere in esame aspetti sempre più limitatati della persona umana, e quello della spiritualità ormai da molto tempo non rientra più nell’area delle competenze mediche. Purtroppo, e in modo meno giustificabile, sembra non rientrarvi neanche quello psicologico.
Fortunatamente qualcosa sembra stia cambiando: il campo dell’etica medica è sempre più sensibile a una visione del benessere globale del malato piuttosto che focalizzarsi solo sul contrasto della malattia come entità a sé. Sono sorti anche legittimi dubbi sull’opportunità di prolungare la vita ad ogni costo senza considerarne la qualità. Non bisogna dimenticare che c’è una grande differenza tra un’amorevole assistenza e l’accanimento terapeutico, che spesso copre per il medico il rifiuto di una sconfitta, e a volte è accettato dal paziente con l’illusione di evitare l’ineluttabilità della morte.
A questo punto è forse importante chiarire meglio cosa si intende per spiritualità. La dimensione della spiritualità è legata all’idea di qualcosa che trascende l’aspetto materiale della vita, un tema che va al di là del corpo fisico e di conseguenza molto lontana dal campo di azione della medicina. Ma se il soggetto a cui si rivolge la medicina è l’essere umano nella sua interezza e complessità, è possibile ignorare completamente la rilevanza di questo peculiare aspetto della natura umana nella formazione del medico?
La spiritualità non va confusa con la religione, a cui per molto tempo è stata delegata. Se la condizione umana fosse puramente materica, forse non esisterebbe neanche qualcosa che potremmo definire come una tensione spirituale. Questa però ha caratterizzato la nostra esistenza fin dal primo sorgere di quella che abbiamo definito come coscienza.
Nelle antiche medicine tradizionali il ruolo del guaritore era assimilato a quello sacerdotale nell’intuitiva percezione che la malattia del corpo coinvolge tutti gli aspetti della persona, incluso la sua condizione psichica e spirituale.
Oggi è improponibile pensare a questa somma di ruoli in un’unica figura professionale, per cui di fronte alle gravi patologie nei centri medici più avanzati si cerca di affiancare al medico la figura dello psicologo per il sostegno emotivo del malato nel suo percorso di cura. Sono state raccolte molte evidenze su come la risposta emozionale possa orientare positivamente o negativamente le prospettive di guarigione, e in questa risposta il ruolo della spiritualità ha un elevato valore.
Se questo è vero per chi soffre, è anche ragionevole considerare che una formazione spirituale, non necessariamente confessionale, possa essere di sostegno a chi cura e deve affrontare la condizione di chi è affetto da una malattia grave o terminale.
Vorrei indicare alcuni punti sui benefici che potrebbero derivarne:
Sviluppare empatia e compassione nel lavoro terapeutico. Queste emozioni da parte del medico sono sempre riconosciute dai pazienti e favoriscono la loro fiducia verso il curante.
Maggiore capacità di comunicazione. Se il medico percepisce realmente il malato come persona con una precisa identità e non solo come un caso clinico su cui intervenire, saprà creare una migliore relazione, offrirà un supporto più efficace e otterrà una maggiore adesione alle terapie da parte dei pazienti.
Prevenzione del burnout. Lavorare con pazienti affetti da malattie gravi può essere emotivamente molto impegnativo per il personale sanitario: una formazione spirituale può dare sostegno per affrontare questo stress e il rischio di burnout.
Apertura a un approccio olistico. Integrare la spiritualità nella pratica medica può favorire un approccio più olistico, portando a considerare non solo gli aspetti fisici della salute, ma anche quelli psicologici, sociali e spirituali e le differenze culturali dei pazienti, aspetto non secondario in una società sempre più multietnica.
In conclusione, se riconosciamo che la spiritualità è una componente essenziale di questa umana natura, dovremmo domandarci se sia possibile escluderla da una relazione come quella tra noi e la malattia. La malattia grave o terminale ci pone di fronte ai fragili limiti della nostra condizione e ci spinge ad affrontare quelle domande a cui spesso si evita di dare risposte.
Quanto al medico, è vero che il suo compito è soprattutto quello di affrontare i problemi del corpo, ma nel suo lavoro incontrerà esseri umani in una condizione di particolare fragilità che inevitabilmente lo porranno di fronte alla propria, e ogni mezzo è prezioso per sostenere questo reciproco carico.
Studente di Chögyal Namkhai Norbu dal 1977, Gino Vitiello è medico e psicoterapeuta a Napoli. È istruttore di Yantra Yoga e insegnante di meditazione, nonché autore di diversi articoli e conferenze sulla Medicina Tibetana e sul tema della morte nella tradizione buddhista.
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