Il Maestro del Maestro

Raimondo Bultrini continua il resoconto del suo viaggio con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. Sono appena arrivati a Nyaglagar, residenxxa del Maestro radice di Rinpoche.

Changchub Dorje dipinto da Wilvin Pedersen

Disse di avere 72 anni quando giunse per la prima volta nella regione del Gonjo. Qui per tre anni visse in un monastero, prima di incontrare la sua prima moglie. Con lei si trasferi, forse intorno al 1920 (spesso i tibetani hanno un concetto assai approssimativo del tempo) in questa valle.

Ebbe poi quattro figli e un’altra moglie. Il più grande, Jurmed Gyaltsen, e morto prima della Rivoluzione culturale, La seconda, Atalamo, alla quale furono attribuite grandi realizzazioni spirituali, e vissuta fino a pochi anni fa, il terzo, monaco e studioso, mori giovane dopo il rientro da un lungo viaggio in Tibet occidentale. All’ultimo figlio, Mikyod, nato dal secondo matrimonio, e toccata la sorte piucrudele, ucciso dai rivoluzionari.

I suoi tre nipoti, [at the time of writing]che oggi hanno tra i 30 ed i 40 anni, sono nati dalla seconda figlia e da Mykyod. Ma i l mistero dell’età di Changchub Dorje è solo un aspetto della complessa figura di questo capovillaggio al quale si attribuiscono le capacità di realizzati ben più famosi, come Milarepa. In particolare Changchub Dorje era considerato un grande medico, in grado di conoscere le proprietà curative di ogni erba e minerale di queste zone. Fu molto probabilmente per le speciali caratteristiche di Nyaglagar che il lama decise di interrompere il suo pellegrinaggio e costruire la casa sotto queste montagne dove ci sono ovunque grotte naturali, l’acqua è in abbondanza, la vegetazione ricca e il terreno fertile.

Scopri subito un terma, un tesoro di grande valore in una delle grotte che s’incuneano fin dentro il cuore della montagna che sovrasta il Villaggio. È una terra rossa argillosa che a contatto con il sole solidifica rapidamente. Cominciò a saperla usare per fare oggetti di protezione come lo zaza (*) che mi regalò Namkhai Norbu a Galen – e, unita all’infinita varietà di piante che crescono spontaneamente, per i suoi famosi farmaci.

Changchub Dorje non aveva mal studiato medicina, ne trattati di filosofia buddhista. Ma aveva dettato al suoi discepoli – tra i quali Namkhai Norbu, per molti mesi suo assistente – centinala di pagine, raccolte in decine di volumi. “Era in grado, interrompendosi per delle ore quando visitava i malati – ricorda Rinpoche – di riprendere a dettare dallo stesso punto. Quando rileggevo gli appunti ero sorpreso di non trovare nessuna ripetizione, ne salto logico.”

Abituato in collegio ad analizzare e discutere, immagazzinare informazioni e trasformarle in concetti filosofici, Namkhai Norbu aveva anche una certa idea della pratica religiosa. Come tutti i tibetani aveva ricevuto delle iniziazioni formali, e come giovane studioso conosceva anche a memoria i testi rituali, i mudra, i gesti simbolici, ogni particolare delle cerimonie utilizzate per trasmettere da Maestro a discepolo i segreti dell’Insegnamento.

Changchub Dorje veniva da tutt’altra esperienza. Il suo maestro radice era considerato una specie di pazzo. Aveva vissuto gran parte della vita come eremita e i suoi discepoli – tra i quali una donna, Ayu Kandro, (*) che visse più di quarant’anni nel buio – ricevevano le trasmissioni in maniera molto semplice, in una grotta, con poche parole, secondo l’uso antico.

Il maestro “pazzo” si chiamava Nyagla Pema Dündul, e non era legato strettamente al soli insegnamenti buddhisti. Buona parte della sua formazione era infatti Bon. Aveva imparato attraverso pratiche molto antiche ad entrare in contatto con gli elementi della natura e a integrare l’esistenza nello stato che i maestri chiamano di “contemplazione”.

Nyagla Pema rappresentava un po’ la sintesi di quelle tradizioni sia del bon che del buddhismo etichettate sotto il nome Dzogchen, che vuol dire Grande Perfezione, e che indica una condizione dell’individuo, l’esistenza com’è, senza concetti, né Limitazioni.

Quanto Nyagla Pema era selvatico e schivo, tanto era aperto e disponibile Shakya Shri, un altro dei maestri principali di Changchub Dorje. Per questa sua qualità divenne famoso in gran parte del Tibet. Changchub Dorje arrivo a lui seguendo un sogno e ci restò alcuni anni. Appena ricevuti da Sakya Shri gli insegnamenti essenziali sulla natura della mente, Changchub Dorje divenne discepolo di Nyala Rangrik, futuro capo della scuola Nyingmapa, detta la scuola degli antichi, la più legata alla tradizione dell’esorcista Padmasambhava. Nyala Rangrik fu scelto dopo lunghe discussioni all’interno della setta, poiché il lignaggio era stato interrotto nella tormentata epoca del XIII Dalai Lama.

Il corpo d luce

Nyagla Pema Dündul nel frattempo – raccontano i suoi biografi – aveva realizzato il “corpo di luce”, dissolvendo dopo anni di pratica la sua dimensione fisica nella natura degli elementi. I suoi discepoli lo avevano assistito fino al giorno in cui si era ritirato in una piccola tenda chiedendo di non essere disturbato.

Passarono due settimane, mentre strani fenomeni atmosferici avvenivano sulla cima della montagna dove si trovava il maestro. Atteso un periodo ragionevolmente lungo di tempo, tutti andarono a vedere che cosa era successo nella tenda. Changchub Dorje e gli altri discepoli trovarono soltanto il suo abito, i capelli, le unghie del piedi e delle mani, considerate le uniche impurità del corpo e come tali impossibili da dissolvere.

Questo fenomeno trova molti precedenti nella tradizione mistica tibetana. Secondo i maestri la scomposizione degli elementi avviene attraverso la pratica quotidiana del corpo, della voce e della mente. Ci si abitua a considerare lo stesso nostro corpo fisico e gli oggetti esterni il frutto di un’illusione mentale, senza forma e sostanza, manifestazioni di un karma che – accumulato nelle vite passate – produce nel caso dell’uomo una visione umana, per le divinità, gli animali e gli altri esseri le rispettive dimensioni di esistenza.

Quando la mente giunge alla piena consapevolezza, arriva a scomporre gli elementi nel loro stato naturale, atomo dopo atomo e si dissolve ogni dualismo, ogni differenza tra noi e tutto il resto.

L’impresa riuscì a un altro maestro del lama di Nyaglagar, vissuto tra il 1859 ed il 1935 praticando lo Dzogchen del Bon: si chiamava Shardza Rinpoche. Secondo altri Lama conosciuta al mio rientro in Occidente, anche Atalamo, la figlia di Changchub Dorje, ottenne il corpo di luce. Ma durante la mia permanenza nel villaggio, né i suol parenti, né Namkhal Norbu, mi dissero nulla a questo proposito.

A uno degli zii di Rinpoche, fratello del padre, è attribuita la stessa realizzazione. Si chiamava Togden e aveva vissuto gran parte della sua vita nelle grotte in montagna. La storia che qui riporto fu raccontata ai lama da un ufficiale tibetano che era stato custode di Togden durante la Rivoluzione Culturale, intorno alla metà degli anni ’50.

Lo yogi era stato fatto scendere dalle sue grotte per tenerlo sotto controllo agli arresti domiciliari in una casetta vicino Derghe. Un giorno l’ufficiale entrò nella stanza a controllare il prigioniero e trovo il suo corpo piccolo come quello di un bambino e raggrinzito. Sorpreso dalla scoperta, e soprattutto impaurito dalla inevitabile reazione dei suoi superiori – che potevano accusarlo di complicità nella fuga – corse a chiamare le autorità del capoluogo. Ma qualche giorno più tardi, giunti nella casetta chiusa dall’esterno, i militari scoprirono che del corpo non restavano altro che le impurità.

L’ufficiale riuscì a scappare e non volle più saperne d politica. Si rifugiò n Nepal per ricevere insegnamenti da qualche maestro tibetano esule e qui lo incontrò nell’84 Namkhal Norbu, che così venne a sapere tutto questo.

Un gioco di specchi

Changchub Dorje, dipinto di Drugu Chogyal

Changchub Dorje cominciò a praticare gli insegnamenti dei suoi maestri in molte grotte che fanno parte oggi del villagglo. Giunse qui seguendo quell’intuito particolare che distingue gli uomini capaci di vedere oltre la dimensione fisica. Così sentì che Nyaglagar era un “luogo di potere” e che in questo angolo di Tibet avrebbe potuto continuare a praticare e a mettere a frutto gli insegnamenti ricevuti. Questa scelta provoco grandi cambiamenti, e non solo per se stesso e per i discepoli che lo seguirono.

Comincio a domandarmi se non ci sia una sorta di gioco di specchi nella storia personale di questi maestri. Ognuno di loro ripete in circostanze storiche diverse un’impresa comune, la trasformazione cioè delle realtà con le quali entrano in contatto. Ma non e un cambiamento visibile. I luoghi restano gli stessi, con i loro sassi, gli alberi, i fiumi, le persone non cambiano faccia o carattere.

Non si tratta nemmeno della pur faticosa impresa culturale dei dotti pandit (*) che importano in paesi stranieri nuove idee o forme letterarie. Questo gioco di specchi in Tibet sembra partire proprio da quello che tutti considerano il capostipite del nuovo Insegnamento giunto dall’India, e cioé Padmasambhava. Fu proprio un pandit, Shantarakshita, grande erudito di Nalendra, la più famosa università dell’Oriente buddhista dell’epoca, a consigliare il re Trisong (VIII secolo d.C.) di invitare Padmasambhava in Tibet.

È come al solito per metà la storia e per metà la leggenda a tramandarci avvenimenti così lontani. In breve Shantarakshita – che per primo fu invitato dal re tibetano a diffondere il principio della compassione buddhista nella Terra delle nevi – venne respinto dalla brutale accoglienza che gli riservarono i bonpo di Lhasa. Continua temporali si scatenavano tra l’altro sul palazzo reale, e secondo gli sciamani del Bon la furia degli elementi manifestava chiaramente la rabbia degli dei contro la nuova falsa dottrina.

A ogni buon conto, Shantarakshita fece i bagagli e se ne tornò in India. “Solo un grande esorcista – disse al re – può combattere questi demoni” e fece il nome di Padmasambhava, il quale dimostrò i suoi poteri prima ancora di giungere all’appuntamento con l’ansioso sovrano.

Soggiogò – narrano centinaia di racconti tramandati dalla tradizione orale e scritta – gli spiriti delle acque, del cielo e della terra, che tentarono di creargli mille ostacoli appena valicato il confine himalayano. Per quest’impresa usò la forza della propria mente e una serie di magie paragonabili a formule alchemiche di trasformazione della materia.

Su invito del re creò monasteri, scuole, e formo un gruppo di discepoli fidati che diffusero i suoi insegnamenti in ogni angolo del Tibet. Gli spiriti e le divinità sconfitti nei duelli magici divennero suoi alleati e servirono il Dharma, così che non fu necessario sostituire tutte le precedenti figure create dal Bon. Sul piano spirituale tutto restò perfettamente e apparentemente come prima, anche se su quello mondano la transizione portò persecuzioni e violenze perpetrate in nome della religione.

Lama Changchub Dorje di questa valle è stato il Padmasambhava del XX secolo, così come molti suoi discepoli (tra i quali senz’altro Namkhai Norbu) hanno trasformato a loro volta altre realtà.

All’inizio, il lama di Nyaglagar non aveva alcuna intenzione di diventare una sorta di capovillaggio e passava infatti gran parte del suo tempo nelle grotte. Ma i vecchi e i nuovi discepoli divennero ben presto una comunità numerosa e molti intendevano limitarsi a meditare tranquilli imitando il

Maestro, senza curarsi di come fare per sopravvivere. Fu questa la circostanza che spinse lama Changchub Dorje a integrare nella pratica lo spirito degli insegnamenti.

Padmasambhava non si limitò a usare dotte disquisizioni teologiche per trasformare le attitudini religiose del Bon, ma rispecchio la mentalità del suo tempo, combattendo con l’arma degli esorcisti di quel livello, la magia dei tantra superiori. Analogamente il lama di Nyaglagar si trovò a dover sconfiggere la mentalità e i costumi dei suoi discepoli.

Siccome tutti lo seguivano qualunque cosa facesse, il maestro scese allora nella piccola valle e si mise a coltivare la fertile terra lungo il fiume. Presto gli altri fecero altrettanto e nacque così una specie di comune agricola dove i compiti venivano distribuiti equamente come i profitti. E questo avveniva quando il comunismo non aveva ancora fatto la sua comparsa in Tibet.

I primi insegnamenti

In generale la comunità di Nyaglagar era formata all’inizio da quella povera gente ignorante alla quale i lama abbigliati con ricchi abiti da cerimonia si limitavano a impartire benedizioni recitando tutt’alpiù qualche mantra.

Rigdzin Changchub Dorje dipinto nel Gonpa di Merigar

Changchub Dorje era cresciuto alla scuola di grandi maestri, ma veniva anche lui da una famiglia umile e sapeva come comportarsi, così che tutti poterono comprendere il suo modo di trasmettere certe conoscenze. Il lama di Nyaglagar spiegò che la religione e la pratica non sono soltanto devozione e preghiera, ma la vita stessa, l’esperienza accumulata senza distrazione giorno dopo giorno.

Cominciò allora a spiegare le più semplici tecniche di rilassamento, la base per ottenere una mente non turbata dal continuo movimento del pensieri. Qualcuno, per mettere in pratica con più facilità le istruzioni, continuò a isolarsi in una delle mille grotte della zona. Ma molti di quelli che compresero il principio dell’integrazione restarono nel villaggio, costruirono case per i nuovi venuti, lavorarono sodo e svilupparono la pratica nei gesti abitudinari.

Controllando la regolarità del respiro, costante profondo, allenavano la concentrazione della mente.

Camminando e sedendo con la schiena dritta permettevano all’energia sottile di fluire liberamente in tutti i canali del corpo. Con cibi e liquidi adatti rinforzavano l’organismo e favorivano la naturale purificazione degli elementi. Sciogliendo le tensioni evitavano di caricare la loro esistenza di negatività.

Questo stato di presenza, di attenzione, poteva continuare anche di notte. Il sonno è simile, per i tibetani, allo stato del bardo, quando tutti i sensi – dopo la morte – si raccolgono nel livello subcosciente e la mente ordinaria, quella che giudica e analizza, non funziona più.

Chi, durante la vita, si è esercitato attraverso il sogno alla presenza delle luci e dei suoni, spiega l’antico Libro tibetano del morti, può riconoscere anche le luci e i suoni del bardo, lo stato che segue il decesso, stadio intermedio tra la morte e la successiva rinascita, e non sarà turbato dalle figure e dalle sensazioni terribili che si presenteranno.

Changchub Dorje era considerato in grado di viaggiare nello stato del bardo. Compariva nel sogno per dare insegnamenti, così come riusciva a manifestarsi e tranquillizzare i suoi discepoli durante i terribili momenti, estremamente coscienti, che seguono il blocco delle funzioni vitali del corpo fisico.

È un fenomeno che potrebbe essere spiegato anche intellettualmente, soprattutto con il sogno. Ognuno ha esperienza delle visioni quando ci si addormenta. Liberati dagli impacci fisici, gli stimoli della vita quotidiana si trasformano in sogni più o meno simbolici che coinvolgono anche altre persone.

Uno studente particolarmente interessato alle lezioni del suo professore potrebbe ad esempio rielaborarle nello stato sottile di coscienza del sogno e comprenderne un significato sfuggito sui banchi di scuola. Il professore stesso potrebbe magari comparire come una figura paterna che prende lo studente per mano e lo accompagna in luoghi sconosciuti.

Un maestro spirituale, come Changchub Dorje, esercita sul suoi discepoli un carisma ancora più potente, e diventa, nella vita ordinaria come in quella del sogno, una guida insostituibile. Quando il maestro non c’é fisicamente, è la forza dell’Insegnamento e del suo esempio a guidare le azioni dei discepoli. In Oriente si parla a questo proposito di mente del Guru, ed e un principio che non trova corrispettivi da noi. Anche i discepoli di un grande filosofo o letterato si rifanno agli insegnamenti del maestro, ma ne seguono in qualche modo gli schemi logici, i percorsi intellettuali.

Tra maestro e discepolo in Oriente il contatto non avviene soltanto attraverso le lezioni, lo studio o i libri. I tre livelli dell’esistenza secondo il buddismo sono quelli del corpo, della voce e della mente. Così, tra maestro e discepolo, la conoscenza si trasmette da corpo a corpo, da voce a voce, da mente a mente. E un fluire ininterrotto di luci, parole e sensazioni.

Per entrare in contatto con il proprio maestro spirituale, il discepolo usa uno dei metodi appresi: movimenti per il corpo, suoni (mantra) per la voce, visualizzazioni per la mente. E’ quello che viene detto Guru Yoga: Guru vuol dire “maestro” e yoga “unione”. L’”unione con il maestro” è di fatto la condizione indispensabile per avere accesso alle conoscenze spirituali già acquisite dal Guru, e che nessun libro da solo potrebbe trasformare in esperienza diretta, concreta.

Continua nel numero di marzo 2023 del The Mirror