di Charles Manson
Shambhala Lives of the Masters series
Shambhala 2022
Recensione di Naomi Levine
Le biografie che trattano temi spirituali legati al Tibet non di rado tendono all’agiografia e si focalizzano in modo esclusivo sugli ottenimenti spirituali, mentre tralasciano gli aspetti mondani, come se la condizione umana desacralizzasse la figura descritta. Sovente, le liste di potenziamenti e ottenimenti fanno sembrare questi libri degli elenchi. Ci sono eccezioni, come Blazing Spendor, la biografia di Tulku Urgyen Rinpoche, nella quale il maestro, ancora vivente, ha condiviso racconti legati alla sua vita tramite due sue studentesse.
Le fonti principali per la stesura del libro di Manson derivano dalle memorie autobiografiche di Karma Pashi, ragione per la quale si determina un vero intreccio narrativo e le realizzazioni spirituali appaiono così più affascinanti. Sebbene i ricordi di Pakshi riguardo alla sua nascita e alla sua discendenza siano scarni, la meticolosa ricerca di Manson ha permesso di costruire una struttura facile da leggere, se rapportata ai complicati aspetti della vita di Karma Pashi, che si legano a eventi storici, politici, umani e sovraumani.
Il 13° secolo fu infatti un momento tumultuoso in Asia Centrale, a causa dell’invasione musulmana dell’India del nord e dei massacri compiuti dalle truppe di Genghis Khan per conquistare la parte settentrionale dell’Asia interna. I nipoti di Genghis, Mongke e Kubilai, erano anch’essi dei predoni e, tra i due, Kubilai era il più pericoloso. L’essere schierato come guru degli imperatori mongoli, questo ci rivela la storia di Karma Pakshi, era estremamente rischioso. Tuttavia, era adatto al ruolo essendo un mahāsiddha, benché ciò diede comunque origine a vicende davvero drammatiche.
Karma Pakshi nacque in una famiglia buddhista e, tra i suoi antenati, all’epoca di Padmasambhava c’era uno specialista di mantra che si racconta fosse in grado di cavalcare il cielo su raggi di luce. Bambino dalle qualità prodigiose, all’età di sei anni Karma Pakshi sapeva leggere senza essere stato istruito e mandava a memoria all’istante gli insegnamenti buddhisti. Quando era un adolescente la sua pratica di meditazione era a tal punto avanzata che descrisse la sua mente come “un oceano calmo e profondo”. Pomdrakpa, il suo maestro, aveva avuto segni atti a indicare la possibilità che il suo allievo fosse la reincarnazione di un famoso santo, Dusum Khyenpa. Sebbene in retrospettiva oggi si faccia riferimento a Dusum Khyenpa come al primo Karmapa, fu proprio Karma Pakshi a essere chiamato per primo Karmapa. Successivamente, l’individuazione di un bambino come reincarnazione divenne una consuetudine per trovare i tulku, adottata dalla maggior parte delle scuole del buddhismo tibetano e impiegata 400 anni più tardi per riconoscere il Dalai Lama.
Le prime trasmissioni ricevute da Karma Pakshi furono quelle dei Canti o doha del mahāsiddha indiano Saraha e le istruzioni di Gampopa relative alla Mahamudra. All’istante realizzò “l’infinita saggezza che riconosce l’ignoranza degli individui riguardo a tutti i fenomeni nel saṃsāra e nel nirvāṇa”.
L’insegnamento grazie al quale divenne molto noto fu “l’introduzione ai quattro kaya”, che trasmise poi anche agli imperatori mongoli Mongke Khan e Kubilai Khan. Verso la fine del Diciassettesimo secolo, il primo Mingyur Dorje Rinpoche ricevette un tesoro della mente di Karma Pakshi mentre conduceva la pratica del protettore Bernakchen. Vide “non in un sogno, ma nella realtà, con i miei occhi, il bagliore di una luce rossa che riempì completamente la stanza… Quando mi risvegliai, nel cielo davanti a me vidi il mandala del guru, impalpabile ma reale”.
L’esperienza vissuta nell’occasione menzionata divenne quindi una sādhanā che fu passata tramite il lignaggio dei Karmapa fino al Sedicesimo, e quindi ai suoi studenti occidentali. Il sādhanā della Mahamudra, terma di Trungpa Rinpoche (rivelato nel 1968), si ispira in parte a un potenziamento di Karma Pashi ricevuto dal Sedicesimo Karmapa.
Pakshi studiò all’interno della comunità monastica e ordinò molti monaci. La sua pratica di yoga era il tummo (il calore interiore), che permette agli yogin di rimanere all’aperto coperti solo da un lenzuolo di cotone durante la stagione invernale più fredda. Vajra Yogini, la divinità che conferisce la realizzazione di questa pratica, profetizzò nelle sue visioni che avrebbe raggiunto la realizzazione del lignaggio.
Tramite il suo tocco scaturirono molte benedizioni e fu pertanto considerato un mahāsiddha, un maestro con poteri spirituali. I sogni e le visioni sono davvero troppo numerosi da descrivere, alcuni duravano perfino una settimana. Secondo Manson: “Attribuiva alle multiformi apparizioni di divinità pacifiche e irate la messa in moto del suo insegnamento sull’introduzione ai quattro kaya”.
Durante un ritiro, una ḍākinī della saggezza gli apparve in sogno e cantò il mantra mani di Cenresig con una particolare tonalità, assicurandogli che tutti coloro che l’avrebbero ascoltato avrebbero ottenuto grandi benefici. Nel 2006, la melodia fu cantata da Lama Norlha in presenza di Manson, che la trascrisse in note musicali nel libro (pag. 37), così da essere utile per chi ama cantare il mantra mani.
È significativo il fatto che Karma Pakshi utilizzava i periodi di ritiro per perfezionare il lingsem, ovvero la ritenzione del respiro, una pratica che, in seguito, insieme ai suoi insegnamenti sui quattro kaya, poté trasmettere a tutti in Cina e Mongolia – agli imperatori come alle persone normali. Le sue capacità erano tali che, solo tramite la respirazione e la ritenzione del respiro, era capace di “risollevare” persino i monasteri ormai in stato di abbandono.
Grazie all’accrescersi della sua fama, Karma Pakshi divenne celebrato come signore dei miracoli. Una leggenda vivente. In virtù della sua capacità di superare ogni ostacolo, divenne anche noto come pacificatore.
Dopo oltre dieci anni di ritiro iniziò la più importante avventura della sua vita. Ricevette una “lettera dorata” dal nipote di Genghis Khan, Kubilai Khan, che dopo aver saputo degli speciali poteri di Karma Pakshi lo “invitava” presso la sua corte. Probabilmente, più che un invito era un ordine, aggiunge Manson. Karma Pakshi era incerto se accettare perché non si interessava di questioni politiche, ma ebbe una visione di Vajrapani e Nanda combinati tra loro che affermavano: “tutti i tuoi insegnamenti e le tue attività si completeranno”. In ragione dell’ulteriore incoraggiamento del protettore Palden Lhamo, gli parve che il tempo fosse giunto. I Khan avevano deciso di schierarsi con un guru buddhista tibetano.
L’incontro con Kubilai si concluse in maniera talmente positiva che la sua famiglia ricevette benedizioni e insegnamenti sul bodhicitta, considerata il prerequisito per il Risveglio. Kubilai invitò quindi Karma Pakshi a trattenersi, ma Pakshi, che sovente prendeva decisioni in base alle sue visioni, quando Cenresig con risolutezza lo avvertì di partire obbedì alla divinità. Si rivelò una decisione fatidica, che avrebbe causato serie conseguenze pochi anni dopo – la prigionia, la tortura e l’esilio per ordine del vendicativo Kubilai.
Karma Pakshi, quindi, viaggiò attraverso il deserto del Gobi verso la Mongolia per raggiungere la corte di Mogke Khan, l’allora imperatore mongolo. Anch’egli seguì gli insegnamenti di Karma Pakshi, raggiungendo in tempi rapidi la liberazione “dalla percezione duale di soggetto-oggetto”. Insieme, realizzarono numerosi progetti a beneficio della società, come la redistribuzione del tesoro reale alla popolazione, il rilascio di molti prigionieri e il patrocinio di templi. Karma Pakshi era incline al vegetarianismo e ciò influenzò con buona probabilità l’imperatore, quando emise un editto perché non si uccidessero animali che rimase in vigore per circa un anno. Benché Mongke Khan fosse ancora un condottiero in attività, Karma Pakshi lo proclamò re del Dharma. Mentre era ancora a corte diede potenziamenti tantrici, durante i quali prosciugò i depositi di alcolici del Palazzo senza ubriacarsi: senza concettualizzazioni, come fosse “acqua che confluisce in un oceano”.

Foto del frontespizio di Karma Pakshi da un dipinto del XIII secolo. Per gentile concessione del proprietario
Per citare Manson: “Affermava che i suoi discorsi educativi e le sue istruzioni erano stati compresi in ben 360 lingue, così chi li ha ascoltati è stato in grado di raggiungere la liberazione nei regni divini”. Mongke Khan e Karma Pakshi ebbero un rapporto di patrono e sacerdote in cui le ricchezze venivano scambiate con gli insegnamenti. Ciò permise la costruzione di una monumentale statua del Buddha presso il monastero di Tsurphu, alta oltre 18 metri, già realizzata tramite visione da Pakshi e chiamata l’Ornamento del mondo.
Nel frattempo, Kubilai, offeso dalla prematura partenza di Pakshi e avvertito di voci riguardo al fatto che il grande maestro era uno spirito malvagio, pianificava la sua vendetta.
Da qui la storia di Karma Pakshi scorre parallela a quella di Padmasambhava. Non poteva essere ucciso mediante affogamento, incendio, avvelenamento, né se gettato in un dirupo. Tant’è che il suo boia si suicidò, sicché la pena di morte comminata a Pakshi fu tramutata nell’esilio su un’isola deserta, dove rimase per due anni per continuare la stesura degli scritti dell’Oceano senza limiti. Nel successivo incontro con Kubilai fu imprigionato in un tempio, le cui porte furono chiuse e inchiodate, ma i muri si fecero trasparenti. Davanti a questo, Kubilai finalmente ‘vide la luce’ e divenne un suo devoto discepolo.
Riassumere l’influenza e le opere compiute in vita da Karma Pakshi è come contare i granelli di sabbia del deserto: i suoi viaggi, le visioni, gli insegnamenti e gli scritti, le conversioni, la costruzione di templi e di statue, o i miracoli. Al monastero di Karma commissionò una statua di Maitreya, il Buddha del futuro; a Nenang, una statua di Dipamkara, il Buddha del passato; e a Tsurphu del Buddha Śākyamuni, ‘Ornamento del mondo’. Una volta costruita, la statua alta oltre 18 metri di Śākyamuni pendeva, ma Karma Pakshi la raddrizzò sedendole davanti in meditazione.
Le sue azioni non sono mai state dimenticate, commemorate in canzoni. Sette secoli più tardi, quando nel 1951 Choegyal Namkhai Norbu attraversò il Kham, ascoltò i nomadi mentre cantavano canzoni devozionali e annotò le parole. Manson cita pressoché tutta la canzone e qui si propone qualche piccolo estratto:
Per ogni personaggio di grande levatura, per tutti, Egli girò la ruota del Dharma in Cina L’uomo che avviò i cinesi al Dharma è lo yogin Karma Pakshi – Prego il Sublime Karmapa!
Quando fu gettato da una bianca roccia, Divenne di sua volontà il re degli uccelli, l’avvoltoio – Prego il Sublime Karmapa!
Quando fu gettato da una bianca roccia, Divenne di sua volontà il re degli uccelli, l’avvoltoio – Prego il Sublime Karmapa!
Quando fu rinchiuso in una piccola cella la tramutò istantaneamente in uno stūpa con molte porte – Prego il Sublime Karmapa!
Karma Pakshi lasciò il corpo all’età di 79 anni, nel 1283. Al momento del decesso nel cielo apparvero due soli e cadde una pioggia di fiori. Nelle ceneri furono ritrovati i suoi occhi, il cuore e la lingua, insieme a ‘ringsel’, o reliquie.
Il libro include la traduzione di tredici canzoni di Karma Pakshi e di numerosi passaggi degli scritti su reincarnazione, meditazione, filosofia, tantra e consacrazione.
Manson ha realizzato una biografia spirituale, miscelando abilmente la ricerca accademica con una narrazione scorrevole. Cavalca l’onda senza mai affondare nelle turbolente profondità dell’agiografia. Un risultato notevole, e una lettura d’obbligo per chi aspira o per chi prende ispirazione dall’eroismo spirituale. Recensione di Naomi Levine Traduzione di Luca Villa