Sulla strada per Nyaglagar
Raimondo Bultrini continua il suo viaggio con Chögyal Namkhai Norbu nel 1988 per raggiungere il villaggio del maestro di base di Rinpoche, Rigzin Changchub Dorje.
Le puntate precedenti pubblicate sul Mirror del viaggio compiuto accompagnando Choegyal Namkhai Norbu Rinpoche in Tibet nel 1988, erano una sintesi dei diari e dei testi elaborati nei mesi e anni successivi al nostro ritorno in Occidente. Questa e le altre puntate sono invece la trascrizione più o meno esatta del lungo racconto inedito trascritto al termine di una delle tappe più significative di quel pellegrinaggio a Khamdogar, o Nyaglagar, il villaggio dove visse negli ultimi decenni della sua lunga vita il maestro radice di Namkhai Norbu, il grande yogi Changchub Dorje (1826-1961?).
Fu studente di Adzam Drugpa (consederato la reincarnazione precedente di Norbu Rinpoche), di Nyagla Pema Düddul, Shardza Tashi Gyaltsen, e Drubwang Shakya Shri. Secondo un testo che Nina Robinson ha scritto su Namkhai Norbu, https://melong.com/our-masters-masters-rigdzin-changchub-dorje/, Changchub Dorje “nacque nel villaggio Dhakhe, nel distretto Nyagrong, nel sud-est del Kham. Sua madre, Bochung (bo chung), era originaria del Dege e fu discepola di Gyalwa Changchub (rgyal ba byang chub), uno yogi del Khrom, di alta realizzazione. Fondò una comunità di praticanti per lo più laici in una remota valle del Konjo, nella parte orientale del Dege. Era conosciuta, e lo è tutt’ora, come Nyaglagar, o Khamdogar. Fu nel 1955 che Chögyal Namkhai Norbu incontrò Rigdzin Changchub Dorje, in seguito a un sogno.
“La prima volta che incontrai il mio Maestro Changchub Dorje – parole di Norbu Rinpoche – fui letteralmente sorpreso del suo aspetto e di come viveva, simile a quella di un qualunque contadino. Indossava abiti di pelle di pecora molto spessi e pantaloni di pelle di pecora grandi e spessi perché in quel paese faceva freddo. Fino ad allora avevo conosciuto solo maestri vestiti molto elegantemente. Non avevo mai visto o incontrato maestri che avevano quell’aspetto. L’unica differenza nel suo aspetto rispetto a un normale uomo del villaggio era che aveva i capelli lunghi raccolti in cima alla testa, e indossava orecchini e una collana di conchiglie.”
Il mio racconto dei giorni passati insieme a Rinpoche 33 anni dopo quella sua straordinaria esperienza a Nyaglagar è rimasto a lungo in un cassetto per il mio timore – non ancora sopito – di imprecisioni e superficialità nel descrivere l’intensità e profondità del rapporto tra Rinpoche e il maestro che lo introdusse allo Dzogchen, e la straordinarietà di un luogo remoto del Tibet letteralmente trasformato da Rigzin Changchub Dorje in una comunità di praticanti credo unica al mondo. Il mio tentativo è stato quello di descrivere fatti e circostanze con la semplicità di un cronista, la mia professione per decenni, e mi attribuisco ogni errore di interpretazione delle stesse spiegazioni ricevute da Chögyal Namkhai Norbu in quei giorni e mesi di straordinario percorso a ritroso nel tempo.
Raggiunta finalmente la strada nazionale giovane accompagnatore mi offre la sua bicicletta per arrivare al villaggio di Kuantò dall altra parte del fiume. C’é da attraversare un posto di blocco sul ponte che separa il Sichuan dalla regione autonoma. Un soldato tibetano con un vecchio mitra in spalla guarda il mio passaporto e il permesso , mentre intorno a noi si forma un gruppetto di curiosi. II ponte è abbastanza lungo e su entrambi i lati ci sono garitte militari che sembrano vuote.

I monaci di Nyaglagar con il nipote di Changchub Dorje, Karwang, l’ultimo a sinistra. Per gentile concessione del MACO
Si arriva in poco tempo a Kuantò dove – come al solito – le case cinesi sono isolate e cinte da cancelli, e quelle tibetane allineate una accanto all’ altra lungo le rive del fiume.
Passando in mezzo alla solita folla curiosa, tra stradine fangose e tratti di villaggio dall’ aspetto africano, arriviamo nella casa che ha ospitato in questi due giorni Rinpoche e Puntsok. Namkhai Norbu è ancora malato, la tosse gli impedisce quasi di respirare. Io invece adesso mi sento bene, forte e finalmente un po’ tranquillo. É l’idea stessa di trovarmi in viaggio, l’attesa di raggiungere un luogo di cui non immagino nemmeno i contorni a eccitare la mente e il corpo. Forse il continuo movimento fisico impedisce ai pensieri di raccogliersi troppo a lungo sullo stesso punto, sull’ ansia di vivere che non sono riuscito a sciogliere nelle mie faticose meditazioni.
Spero di potermi lavare nel fiume, ma devo rinunciare anche stavolta perché c’é poco tempo. É già quasi un mese che non faccio un bagno completo, anche se a queste quote le conseguenze non sono poi per fortuna così terribili. Ripartiamo il giorno dopo l’arrivo attraversando paesaggi di valli strette come ferite nei fianchi dei monti fino a quando non si aprono quasi all’improvviso pianure sconfinate che finiscono con catene nevose. Stiamo viaggiando ormai sopra i 5000 metri sul passo del No—là, dove spiccano nella neve le tende nere dei nomadi. Namkhai Norbu racconta di aver attraversato molte volte questo passo, ma in ben altre condizioni, con giorni e giorni di cammino a cavallo.
Scendendo sull’altro versante l’inverno sembra finire all’improvviso, ma tra i colori dell’erba primaverile spiccano ancora chiazze di neve e ghiaccio. Proprio dal bianco di una campagna gelata si stagliano le figure di due uomini che camminano facendo prostrazioni. Vanno a Lhasa, e arriveranno distrutti, allo stremo delle forze, se saranno in grado di resistere.
Perché lo fanno? L’unica cosa certa è che la fede è più forte della loro stessa vita. Hanno l’intenzione di arrivare nella città santa, e s’inginocchiano pregando su ogni sasso della strada. Per loro ogni metro in più sulla via è un offerta alle divinità, ai maestri, all’Insegnamento. Nessun conforto materiale, un’auto per arrivare prima, ricchezze, niente importante della purificazione di un viaggio così sacro e sofferto. Mèta finale è la realizzazione.
Chiedo al Maestro se questo sacrificio servirà davvero a qualcosa. “Con un’intenzione così forte – risponde – otterranno senz’altro ciò che vogliono”. Resto a lungo in silenzio mentre vedo scomparire in lontananza i due pellegrini che ora sono fermi a osservarci. Anche io – nonostante le diverse tappe del percorso sto andando a Lhasa. Ma c’è una bella differenza tra il loro travagliato cammino e il mio facile viaggio a bordo di jeep e aerei.
Gli animali degli altipiani
Attraversiamo il capoluogo, Jonda, dove vivono molti cinesi. E altri ne incontriamo ammassati sui camion, diretti verso qualche cava, o lungo la strada in costruzione. Bastano pochi chilometri dal capoluogo per non incontrare più anima viva. L’ erba diventa color verde muschio e la terra è rossa. Sembrano i colori di una savana, solo più intensi, mentre il posto dell’uomo è preso da ogni sorta di animali selvaggi.
A cento metri da noi corre un lupo, che si ferma quando blocchiamo la jeep per fotografarlo. Ci osserva pochi secondi poi scarta e fugge. Due enormi avvoltoi si alzano in volo mentre ovunque, da una buca all’altra del terreno, corrono i piccoli avra, specie di topi che spesso trasportano sul dorso minuscoli uccelli, gli atakayu. Quando gli avra entrano nelle buche, l’uccello cade. Osservo la scena con la sensazione che possa nascondere un significato. Restando presenti, attimo dopo attimo, possiamo cavalcare il tempo, senza rincorrerlo né anticiparlo. Ogni distrazione di indugio nei ricordi, di speranza o paura per il futuro, ci fa seguire la sorte di questo minuscolo uccello.
Gli avra hanno anche un altra caratteristica utilizzata dai tibetani per i loro simbolici aneddoti morali. Questo topo accumula infatti in estate molta paglia per cibarsi nella stagione fredda, e con grande fatica ne ammucchia in quantità enormi rispetto alle sue dimensioni. Spesso, però, altri animali più grandi, scoperte le tane, con pochi bocconi divorano tutte le sue riserve. Il piccolo roditore rappresenta così l’inutilità dello sforzo di accumulare ricchezze per sé stessi con cupidigia quando il caso può toglierci tutto.
Infine gli avra – che vivono in perfetta simbiosi con gli atakayu, tanto da farsi addirittura trasportare in volo se neccessario sono anche famosi per la rete delle loro gallerie simili a quelle delle talpe. Ci sono zone tanto infestate dagli avra da restarne completamente brulle.
Ma i veri padroni di questi luoghi sembrano in realtà i corvi. Ce ne sono ovunque, grandissimi. Anche questi uccelli hanno per i tibetani un altro significato simbolico oltre quello apparente: sono la manifestazione della protettrice Ekajati, un entità femminile che tutela l’Insegnamento volando circondata di fiamme da un punto all’altro del cielo. Ha un occhio solo che simboleggia la visione non duale, e per avere un idea della sua forma i tibetani adornano gli altari con le piume di pavone: l’occhio è il cerchio colorato e concentrico.
I pochi nomadi che incontriamo hanno l’aspetto selvaggio. I capelli delle donne e dei bambini sono lunghi e dritti, rivolti in ogni direzione, mentre la pelle ha il colore rosso della terra. Dopo una mezza giornata di viaggio in jeep raggiungiamo un villaggio di semi nomadi che vivono in case di pietra rossa al termine della strada battuta.
Un uomo dai capelli lunghi raccolti ordinatamente sulla nuca ci viene incontro per accompagnarci, austero, verso una tenda bianca dai disegni ricamati, dove gruppi di monaci, bambini e curiosi sono la ad attenderci. II nostro accompagnatore si chiama Karwang, è uno dei nipoti di Changchub Dorje, il lama fondatore del villaggio di Khamdogar. Per raggiungere il villaggio che il maestro di Namkhai Norbu chiamò anche Nyaglagar dobbiamo viaggiare ancora tre ore a cavallo attraverso torrenti, discese ripide, sentieri strettissimi, poiché manca strada e nemmeno la jeep potrebbe farcela. Per questo Karwang e i monaci sono giunti all’appuntamento con un giorno di anticipo e le cavalcature per tutti.
Intorno alla tenda da viaggio, dove sostiamo in cerchio per il rituale tè al burro, sono legati quelli che saranno i nostri cavalli più un paio di muli per i bagagli. Attraversiamo cosi, in carovana, un altro tratto di paradiso che non ha mai conosciuto automobili, né occidentali.
Camminare a cavallo in luoghi come questi offre certamente una sensazione totalmente nuova di armonia con la natura, ma anche di irrealtà. Adesso non è tanto fantastico ciò che sto vedendo e toccando, quanto il pensiero di un mondo dove esistono fumi di industrie, missili, stress, traffico. I rari villaggi lungo la strada sono fatti di case in pietra all’aspetto di piccoli castelli addossati alle rocce. Seguiamo il percorso di un fiume trasparente come vetro, dove l’acqua corre tanto regolarmente da sembrare una lastra immobile che lascia riflettere luce sui sassi nel fondo.
Come sempre il paesaggio cambia a ogni curva. Posso contemplare ogni cosa perché un giovane monaco tiene abilmente le redini del mio cavallo, lasciandomi libero di godere il paesaggio. Anche qui, fin da piccoli, i Khampa imparano a cavalcare ancor prima di saper stare fermi sulle loro gambe, e il giovane monaco scudiero sorride per il mio buffo stile di trotto.
Lungo questo percorso non ci sono tende di nomadi, ma case sparse, dalle quali escono uomini e donne che ci vengono incontro. Qualcuno intuisce che dev’esserci un grande lama, e si avvicina a capo scoperto per ottenere una benedizione. A poca strada da Nyaglagar due segni di buon auspicio annunciano l’arrivo della nostra comitiva. Un’aquila gira in tondo sopra le nostre teste e un cuculo canta ininterrottamente da qualche parte della valle. Il canto del cuculo in particolare è considerato uno dei segni più fausti.
A Nyaglagar
I suoni bassi dei lunghi corni e dei tamburi, gli acuti delle conchiglie e delle trombette giungono sempre più forti man mano che ci avviciniamo al villaggio, mentre le punte delle colonne di fumo del sang compaiono qua e là oltre l’ultima gola che nasconde la vallette di Nyaglagar. Anche qui offerta di erbe aromatiche sacre diffonde nell’area un odore dolce e acre mentre tutti i sensi possono concentrarsi in un’una, fantastica sensazione contemplativa. La valle si apre dietro l’ultima curva mostrando un triangolo formato da un fiume, una foresta di abeti, una montagna. Il cielo è di un azzurro cristallino appena chiazzato da sbuffi di nuvole leggere e sembra anch’esso delimitato dallo stesso triangolo di questa valle.
Provo subito una sensazione molto diversa rispetto a Galen. La natura sembra accoglierci con il suo umore migliore, un buon clima, colori intensi. Al villaggio si entra attraverso un ponte di legno dove c’é un vero e proprio comitato di accoglienza. Namkhai Norbu riceve gli omaggi delle kata e viene fatto salire su un altro cavallo. Ora la musica dei monaci che suonano sul tetto del tempio è più fragorosa. Lungo la strada di terra battuta che porta al nucleo centrale del villaggio sono allineati grandissimi chorten bianchi, sopravvissuti alla Rivoluzione culturale. Due templi quasi interi e le rovine di altri distrutti per gli anni di abbandono forzato, delimitano insieme ai chorten il perimetro di Nyaglagar, cinquanta case e decine di grotte naturali dove ancora oggi vivono yogi ed eremiti praticantindello Dzogchen. Con la piccola telecamera cerco di riprendere tutto il sorpendente spettacolo che ci riserva l’accoglienza del villaggio, la folla che segue il cavallo di Rinpoche e che fa largo per lasciarci passare, curiosa e sorridente.
Finalmente eccoci arrivati in questo luogo, forse la più attesa di tutte le mète. Ho sentito cosi tanto parlare di Nyaglagar e del mitico Changchub Dorje, che ho la sensazione eccitante di poter toccare un sogno. Ed effettivamente la storia dei maestri e dei discepoli legati a Nyaglagar sembra nascere tutta dai sogni. Namkhai Norbu era poco più di un ragazzo quando raccontò ai suoi genitori la visione di un villaggio del Tibet dove viveva un uomo sulla cui casa in stile cinese campeggiava il mantra di Padmasambhava. Dalle descrizioni di un viaggiatore amico del padre, che parlava di un grande medico molto conosciuto al di là dello Yangtse, riconobbe l’uomo e il villaggio del sogno, e chiese al padre di accompagnarlo fin li.
C’é solo qualche abitazione in più rispetto ad allora, il 1956. Per il resto nulla è cambiato, nemmeno la casa del lama fondatore: gli stessi oggetti, le stesse stanze spoglie, lo stesso bianco dei muri. Anche i vecchi eremiti sono scesi dalle grotte sopra al villaggio per vedere il lama giunto dall’Occidente, e qualcuno riconosce il tulku diciottenne che fu discepolo del grande maestro, più di trent’anni prima. II corteo delle visite comincia appena mettiamo piede nella sala del tempio dove alloggeremo per un paio di settimane.

Phuntsog Wangmo (a sinistra) e la sorella maggiore di Rinpoche, Sonam Palmo, durante il viaggio
Insieme a Sonam Palmo e Puntsok sediamo sui tappeti che saranno i nostri giacigli mentre a lama Norbu è riservato un grande letto sul fondo della stanza, davanti a un piccolo altare circondato da 108 nicchie con altrettante statue di Padmasambhava. I visitatori offrono sciarpe bianche e s’inginocchiano davanti al lama nel solito, lento rituale. Aspettano dietro la porta il loro turno e qualcuno fa prostrazioni lungo il tragitto fino al letto-trono del lama, ornato di sete colorate Devo faticare non poco per dire “no” a tutte le persone che continuamente mi offrono tè al burro, tsampa, carne secca, biscotti, caramelle, riso con carne. Ho imparato a dire “Basta, grazie”: qualche volta, ma non sempre, è la frase magica per interrompere il flusso del cibo.
Sonam Palmo è dispiaciuta con me perché rifiuto troppo spesso le offerte. So che può sembrare un comportamento offensivo, ma non riesco davvero a mangiare e bere tutto ciò che mi arriva davanti e l’insistenza di Sonam Palmo per la prima volta mi irrita, come succede ai bambini costretti a qualcosa di seccante. La tsampa è difficile da imporre a chi non è abituato perché, soprattutto nei primi giorni gonfia lo stomaco ed è poco digeribile. Per non parlare delle radici del to-mà, che sono così ruvide da trovare difficile accesso attraverso l’esofago. L’ unico modo di farle giungere a destinazione velocemente è quello di condirle con lo yogurt. Ma è buona regola mangiarne almeno metà con tsampa secca e burro, un impasto micidiale. Va detto che questo piatto è considerato una vera prelibatezza, e sicuramente dopo un lungo periodo di allenamento può essere apprezzato nel suo giusto sapore. Per fortuna a Nyaglagar, in fatto di cibo, non c’é che l’imbarazzo della scelta, perché il corteo di persone giunte per rendere omaggio al discepolo di Changchub Dorje è formato da contadini e pastori, e nessuno entra a mani vuote.
Facce sorprese o intimidite, uomini, donne e vecchi di un eta incalcolabile, tutti con il loro mala in mano recitano mantra avvicinandosi al letto di Namkhai Norbu. Il lama sembra non avere espressione, e davanti ai miei occhi la sua figura si è ormai trasformata in quella di un re venerato da frotte di sudditi.
Terminato il corteo restano nella grande stanza illuminata dalle candele i monaci e i capi di questa comunità di tre, quattrocento anime. Siedono ai piedi del letto del lama, che parla in continuazione. Colgo al volo nomi di luoghi: America, Australia, Giappone, Europa, Italia. Anche qui Namkhai Norbu sta evidentemente parlando del misterioso Occidente e dei paesi dove ha viaggiato prima di arrivare in questo regno del Dharma.
Cerco di rilassarmi in attesa della notte, quando saremo di nuovo soli nella stanza. Mi portano molte coperte e capisco che è ormai giunta l’ora. Infatti, arretrando chini per non mancare di rispetto al lama voltandogli le spalle gli ospiti ci lasciano. Ma dopo la mezzanotte suonano due volte le lunghe trombe cupe e comincia il lento, costante, battere del tamburo per il rito notturno delle divinità guardiane, chiamate a proteggere il sonno del villaggio e dei nuovi ospiti.
Prima dell’alba ci sveglia di nuovo il suono basso e profondo dei corni, per ricordare a tutti la presenza del lama che fu discepolo della grande anima di Nyaglagar. Mi è difficile ritenere eccessiva tanta considerazione, ascoltando la storia di Changchub Dorje cosi come l’ha descritta Rinpoche, e cosi come ne parlano – continuamente – gli abitanti di Nyaglagar.
Continua nel numero di dicembre di The Mirror
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Video di Chögyal Namkhai Norbu in Tibet 1988




