
The Mirror: Caro Yeshi, hai recentemente creato una composizione sonora intitolata ATIMONLAM, che viene descritta come una meditazione guidata per scoprire la nostra natura interiore. Può gentilmente raccontarci come è nata questa idea e la storia della creazione di quest’opera?
Namkhai Yeshi: La storia è molto lunga. Non è una storia come si può pensare, non è un comune lavoro artistico in cui si ha un tipo di ispirazione con cui si inizia a lavorare ed impostare il proprio lavoro artistico. È molto lungo perché stavo pensando alla possibilità di utilizzare il suono.
Nell’insegnamento dello Dzogchen abbiamo due metodi principali. Il primo è la forma, il secondo è il suono, che si riferisce al semplice fatto che lavoriamo per lo più in un’unione di vuoto e chiarezza. Normalmente la vacuità è rappresentata dalla forma, poiché l’essenza della mente è la vacuità. La chiarezza è generalmente rappresentata dall’energia e l’energia per gli esseri umani è soprattutto il suono. Infatti, di solito parliamo della nostra voce come espressione dell’ energia. Quindi l’idea era semplicemente quella di colmare un vuoto: abbiamo dell’ ottimo materiale per lavorare nel campo della forma e non abbiamo molto materiale per lavorare nel campo del suono.
Abbiamo molti esempi di suoni. L’esempio più semplice, tratto dagli insegnamenti di Chögyal Namkhai Norbu, è quello della purificazione. Usiamo suoni legati agli elementi, abbiamo dei mantra e immaginiamo anche i colori specifici. Combiniamo tutti questi aspetti della forma e del suono in un modo unico. E questo non è molto comune. È stato presentato da Chögyal Namkhai Norbu come un metodo specifico. Ora tutti stanno facendo la purificazione nello stesso modo, ma in realtà questo è un metodo specifico, non è proprio il modo più comune di farla. Quindi è stata una Sua scelta usare il suono in questo modo, proprio come la pratica principale che facciamo è il Canto del Vajra.
Il Canto del Vajra è una struttura basata sul suono e non è nemmeno la più comune attività o pratica o tipo di meditazione che si possa fare. È presentato come parte della serie di Semdzin. Possiamo discutere anche di questo aspetto, ma non è la cosa più importante. La cosa importante è che nel Canto del Vajra ci sono tutte le strutture e le informazioni relative alla serie completa degli insegnamenti Dzogchen, almeno quelli che sono stati trasmessi e dati da Chögyal Namkhai Norbu che risalgono al lignaggio completo. In realtà è tutto contenuto nello stesso canto, nello stesso momento in cui lo state cantando. E questa è l’idea principale: entrare direttamente nello stato non duale attraverso il suono. Anche se si tratta di un singolo suono come la “A” o dell’intero Canto del Vajra, non importa come lo si fa, il punto chiave è che si entra attraverso il suono. Non si entra attraverso la forma, non si utilizza un’idea concettuale.
Diciamo, per esempio, che si entra gradualmente in uno stato di calma, come in tutte le spiegazioni di nepa, ngyuwa, ecc….Ci si sposta dalla comprensione concettuale della propria mente per entrare nella conoscenza della mente, che è più concettuale. Poi si scopre il movimento e si entra direttamente nello stato non duale. Qui, invece, lo stato non duale è introdotto direttamente da noi stessi attraverso il suono, non esternamente da qualcun altro. E il suono avviene nel tempo. Essendo un evento non sincrono, il suono ci aiuta a entrare direttamente nello stato presente.
Ho lavorato e riflettuto molto su come colmare questa distanza, su come creare qualcosa che possa permettere a chiunque, con o senza alcuna esperienza dell’insegnamento Dzogchen, di avere questo tipo di esperienza. O almeno di percepire qualcosa che al primo momento possa essere una sorta di esperienza generale del tempo presente. Proprio come quando diciamo che la mente ordinaria è la porta della natura della mente. Poi, da questa comprensione ordinaria della presenza, potete entrare nella vera comprensione della consapevolezza e della conoscenza del tempo presente e scoprire che questa presenza e questo tempo presente sono il vostro stato naturale. È così che si può entrare direttamente attraverso il suono nella comprensione del proprio stato naturale, al di là di qualsiasi tipo di attività mentale come il giudizio.
La mia idea era quella di utilizzare una forma comune, un modo comune di presentare tutto questo, quello della musica moderna. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e fino a tempi recenti si è assistito a una crescente conoscenza e sviluppo del repertorio della musica moderna, che ha a che fare con il tempo presente, la mente e così via. Non è come la musica classica della fine del XIX secolo, come la musica russa post-romantica, tanto per citare la musica più classica che ascoltiamo. In ogni film che guardate c’è la musica epica – questa è indiscutibilmente musica russa, la quale deriva dalla struttura dell’orchestrazione di Rimsky Korsakov e da allora, fino ad oggi, ancora ascoltiamo la stessa musica.
Dopo l’inizio del XX secolo, si sono sviluppati tipi di musica completamente diversi, non tonali ecc, e anche la musica elettronica, la quale in qualche modo ha alcuni elementi comuni con la meditazione, le pratiche mentali e la conoscenza di se stessi, perché nel XXI secolo le cose sono cambiate molto. Usando questo linguaggio più comune, chiunque può accedere a quello stato.
L’idea era di dare questo tipo di esperienza a tutti. E per coloro che hanno un’ottima conoscenza di quello stato è un modo per migliorare in un percorso ben definito. Non si tratta semplicemente di dire: “Oh, adesso rimango presente e non mi distraggo”. È invece un modo guidato per farlo.
M: ATIMONLAM si articola in tre parti, descritte come esterna, interna e segreta. Cosa trasmette all’ascoltatore ciascuna parte ?
NY: Ci sono tre momenti, o tre movimenti come nella musica, ma soprattutto si tratta di tre fasi. C’è una fase esterna in cui c’è ancora il mondo dei suoni esterni, suoni provenienti dal mondo reale a cui possiamo ancora in qualche modo fare riferimento; il gesto musicale può ancora riferirsi a qualcosa che esiste. Poi c’è una parte centrale, che riguarda completamente il mondo interiore, in cui si iniziano a sentire suoni che provengono dal corpo fisico: ci si concentra sul respiro, sul battito cardiaco, su suoni che normalmente non si sentono con l’orecchio. E poi c’è una parte segreta, o chiamiamola più assoluta o concettuale, che è il suono stesso.
Cosa succede davvero nella mente? Si passa da un suono esterno a un suono interno, a un suono che esiste da solo, che non ha bisogno di essere un’espressione dell’energia. Questa è stata l’ispirazione principale: l’idea di come trasformare questa comprensione, questa conoscenza che ho, questo tipo di esperienza, in qualcosa che si possa sentire, che si possa sperimentare. Ho pensato: utilizziamo un suono che non è praticamente possibile fissare su un supporto. Ho scelto un suono che non è in alcun modo possibile rappresentare digitalmente, ovvero il suono di una fiamma, perché la fiamma di per sé è un concetto.

Come possiamo suggerire l’idea del fuoco che brucia? Ovviamente il fuoco è un elemento speciale. Nell’insegnamento il fuoco ha un significato molto importante. Il fuoco brucia tutto, ma nulla brucia il fuoco stesso. Ecco perché è un esempio importante. Abbiamo diversi tipi di esercizi mentali, come nella serie dei Rushen, che sono essenziali per la pratica dello Dzogchen Longde, dove sperimentiamo il fuoco. Sperimentiamo di lavorare con la chiarezza nel campo dell’immaginazione del fuoco e di lavorare con questo elemento instabile. Così ho pensato: proviamo a usare quel suono che voi immaginate praticamente, facendo un gesto esterno, il gesto di accendere un fiammifero.
Ma questo accadrà molte volte, quindi diventa anche un impulso musicale. È come il ritmo di una canzone. Questo è il tempo del pezzo che ci permette di tornare ogni volta a quel tipo di presenza, perché il suono è molto forte. È ovviamente più forte di qualsiasi realtà possibile, perché è stato registrato molto vicino al luogo in cui vengono accesi i fiammiferi e dura esattamente il tempo della fiamma. Non è stato modificato o trasformato per farlo durare di più. È esattamente quel tempo, perché questo è l’obiettivo finale.
La mia idea è stata quella di inserire questo elemento che si ripete e che permette alle persone di entrare in quello stato presente esattamente nel tempo naturale necessario, cioè al massimo due secondi. Due secondi sono sufficienti per entrare direttamente in uno stato non duale. È come quando si canta “A” e la “A” dura qualche secondo. In uno o due secondi si entra in quello stato, si è rilassati e presenti, e si ha la consapevolezza di tutto ciò che si è imparato su questo insegnamento.
L’idea è stata quella di ripeterlo più volte e di avere una struttura che è fondamentalmente tre volte il Canto del Vajra. Il Canto del Vajra dura poco più di sette minuti. Ho moltiplicato per tre, ho creato i tre movimenti e ho aggiunto a tutte queste parti la ripetizione legata alla fiamma. Tutto nasce dalla fiamma. Questa era l’idea.
L’ispirazione era come la fiamma brucia: c’è una parte iniziale del suono che è come una turbolenza, come un vento. È un suono non reale, un rumore che nasce dal silenzio. E poi lentamente, lentamente, sposta l’aria e crea un suono che è presente solo nell’ambiente. Non è un suono reale che ha delle componenti particolari, ma una turbolenza molto forte dell’aria. Avendo quel movimento mentale, si immagina, si richiama quell’esperienza di calore, di luce e così via. E tutto in quel brano musicale si riferisce anche a tutti questi aspetti.
Come c’è la fiamma, c’è anche il battito del cuore, che è qualcosa di caldo. Anche quando stai respirando, l’idea è che stai scambiando aria, ti stai rinfrescando, ma allo stesso tempo ti stai trasformando, stai producendo energia interna. Si ha bisogno di ossigeno per bruciare qualsiasi cosa nel corpo, per trasformare qualsiasi cibo, qualsiasi elemento dal punto di vista cellulare. Anche la respirazione interna non è una respirazione a cui normalmente pensiamo. Quando diciamo “respirazione”, abbiamo la respirazione esterna, l’inspirazione e l’espirazione, ma abbiamo anche la respirazione cellulare, che è più simile a quella di una pianta, di un vegetale. Non è qualcosa legata ad un movimento di inspirazione ed espirazione, ma è più una reazione chimica come la fotosintesi. Questo è per lo più il modo in cui le cellule respirano internamente, e questo è anche il motivo per cui da questa parte, da questo movimento, passiamo alla terza parte, che è la parte segreta più legata alla conoscenza.
È semplicemente come dire che si sa che funziona così. Ecco perché in quella parte scompaiono molti elementi del mondo esterno e appare per la prima volta l’armonia. Nella parte precedente, non c’è quasi nessuna armonia; ci sono pochissime note, i suoni comuni della musica. Solo nella parte finale iniziamo ad avere strutture armoniche molto dense e con molte variazioni. Tutto è ovviamente costruito sulla mia tonalità, che è il do diesis perché io canto, respiro e penso in do diesis. Queste strutture armoniche sono un grande sviluppo del do diesis.
Normalmente abbiamo il si bemolle – la tonalità principale di Chögyal Namkhai Norbu è il si o il si bemolle, dipende – il do diesis e il re per la musica più spirituale. Tutte le Messe sono solitamente scritte in re perché il re era considerato, almeno nel periodo classico, la tonalità corretta per una Messa, per la musica religiosa e così via. Il do diesis non è molto usato nel mondo occidentale, ma in quello orientale, soprattutto in relazione alla musica indiana che ha una tonalità incentrata sul do diesis.Per questo motivo, ho pensato che sarebbe andato bene.
Poi questa idea doveva essere tradotta in qualcosa che si potesse effettivamente ascoltare, con cui si potesse lavorare. Ho testato questi suoni per vedere se promuovessero qualche tipo di fase o stato mentale interessante. Per farlo, ho dovuto ovviamente smettere di lavorare per alcuni giorni e ascoltare quello che avevo fatto, senza alcuna intenzionalità, per poi capire come ci si sentiva davvero, se funzionava o meno. Ovviamente doveva influenzare la mia percezione. Se ha influito e funzionato, allora sono andato in quella direzione, altrimenti ho rielaborato alcune parti, ma l’idea principale era abbastanza corretta fin dall’inizio.

Dal punto di vista della produzione, ho dovuto raccogliere tutti i suoni. La maggior parte dei suoni sono coerenti e registrati nella casa di Chögyal Namkhai Norbu. Praticamente tutto ciò che si sente nella composizione proviene da lì. Tutti i suoni, anche quelli esterni, provengono da Merigar. Non c’è nulla che sia stato aggiunto di proposito per migliorare o ottenere un effetto estetico finale. L’intero lavoro non ha nulla a che fare con l’estetica, ha un obiettivo funzionale. Stavo lavorando con l’idea di creare un’opera funzionale, un’opera musicale, in modo da promuovere quel tipo di stato senza pensare o sentire il bisogno di avere uno scopo estetico.
Che i suoni piacciano o non piacciano, non è questo il punto principale. Il punto principale è se si entra in una sorta di stato mentale interessante, il che significherebbe che il lavoro ha raggiunto il suo obiettivo. Se invece si è in qualche modo catturati dal lavoro estetico, allora si è praticamente fallito perché è molto facile per qualsiasi pezzo musicale essere estetico – si segue l’armonia, il ritmo, si aggiungono alcuni elementi specifici, e poi è esteticamente bello. Ma questo non significa aver raggiunto alcun tipo di obiettivo in termini di meditazione.
M: Sappiamo che hai utilizzato oggetti appartenenti a tuo padre, Chögyal Namkhai Norbu. Quali oggetti hai scelto e cosa ti ha spinto a sceglierli?
NY: Gli oggetti ovviamente non possono essere oggetti qualsiasi. Per fissare questo suono in un supporto, come una registrazione digitale, è necessario un oggetto che produca un suono. È necessario lavorare con questi oggetti. Normalmente quando ci riferiamo agli oggetti, almeno da un punto di vista musicale o tradizionale, parliamo di “oggetti trovati”. In francese si dice “objet trouvè”. Gli oggetti trovati sono oggetti tipici che producono un suono che trovate interessante e siete per lo più catturati dal suono stesso. Si tratta di una caratteristica spettro-morfologica piuttosto che dell’oggetto in sé. Non vi interessa che l’oggetto abbia una funzione specifica nel mondo reale, ma che produca un suono interessante che si riferisce al risultato finale o allo scopo del vostro lavoro artistico.
Si tratta di una tradizione che a partire dagli anni ’60 si chiama musique concrète o musica concreta e si riferisce agli studi e alle ricerche degli anni ’60 sulla musica in Francia, soprattutto a Parigi, da parte di un gruppo il cui leader era Pierre Schaeffer. Questo tipo di musica, che è ancora molto popolare oggi, si basa sull’idea di ascoltare analiticamente i suoni in termini di caratteristiche che hanno per il fatto di essere suoni e nulla più.
Di solito li si classifica utilizzando tabelle in cui si dà un nome a questo suono, si dice che questo suono ha questa caratteristica ed è utile per fare questo e quello e lo si inserisce nella propria biblioteca. Poi si passano in rassegna tutti gli oggetti disponibili, li si ascolta e soprattutto li si ascolta nella stanza giusta. Forse un oggetto funziona bene in una stanza ma non in un’altra.
Alcuni degli oggetti sono stati registrati nel piccolo gönpa che si trova al piano superiore, dove mio padre di solito riempiva e autenticava le statue. C’è il suo martello e tutti gli strumenti per riempire le statue. Ci sono molte parti diverse della stanza che sono fatte di legno, soprattutto il soffitto. È un soffitto di legno dipinto con mantra realizzati da Migmar e ci sono anche vetri, arazzi, tappeti e così via. L’insieme di questi materiali crea un tipo specifico di ambiente sonoro e ho registrato molti oggetti lì di proposito, prendendoli dal suo studio e portandoli in questo piccolo gönpa, perché lì suonavano meglio e inoltre sembrava anche più coerente.
Ho usato alcuni oggetti musicali come flauti e altri oggetti dal suono strano che mi erano stati regalati, come le cosiddette “Campane Tibetane”. Non mi piace quel suono, ma ho creato alcune emissioni interessanti grattandole o facendo cose strane.
La parte più importante di questa composizione è il passaggio di ogni movimento da uno stadio, uno stato mentale, ad un altro, che di solito avviene all’improvviso. Il più importante è quello che precede la terza parte perché rappresenta il tregchod, l’idea di tagliare con un unico suono molto acuto. È la campana di Chögyal Namkhai Norbu per l’iniziazione, che ho registrato in modi diversi. Ho combinato quel suono al contrario, in modo che invece di suonare come “dong”, diventi improvvisamente molto acuto e tagli quel suono. Ho anche aggiunto qualcosa di molto strano, che oggi si trova nella sua stanza: ci sono dei fogli di polvere di plastica che hanno un suono molto forte, simile a quello dell’acqua, al rumore delle onde su una grande superficie d’acqua, come in riva al mare. Ho mescolato questo suono e ciò ha creato questo impatto molto forte in cui si ritorna allo stato presente.
La tensione è una tensione espansa, perché la terza sezione è estremamente densa. C’è molta energia, ma non c’è una vera tensione. È un’energia che non si muove e l’unico movimento è creato dall’armonia. All’inizio c’è un movimento esterno perché le cose si muovono: ci sono uccelli, ci sono persone che camminano, ci sono cose che accadono all’esterno. Poi c’è una parte centrale in cui solo il corpo fisico si muove: Sono fermo con i microfoni a contatto sul petto e tutto si muove perché il mio corpo si muove. Respiro, il cuore batte, sono in uno stato molto rilassato ma il corpo è molto attivo. Poi, improvvisamente, c’è questo suono di tregchod che taglia e si entra in una fase in cui c’è un movimento che crea questa struttura espansa, molto densa, in cui c’è un movimento di cose armoniche che appaiono e scompaiono. C’è una progressione armonica molto ampia, in do diesis, come un’orchestra completa, da un tono molto basso a uno molto alto, e nel movimento c’è solo questa grande espansione e basta.

Ma prima c’è un suono molto forte. E ciò che è interessante, se analizzate il suono di quella campana, è che praticamente contiene molti dei suoni che sentirete in seguito in una versione espansa, perché l’ho messa in relazione dal punto di vista della frequenza in modo che suoni come un’espansione della stessa cosa. Quella campana è un’enorme campana per l’iniziazione che è ancora lì, anche se quella stanza ora non è utilizzata. Ci sono queste copertine di plastica, ci sono diverse cose e alcune sono esattamente come sono state lasciate.
Quindi, quando suggerisco l’idea che ora siamo nel tempo presente, gli oggetti non sono nel piccolo gönpa, ma dove sono. La differenza nel luogo, nello spazio sonoro, è quando lo si sente grande e poi lo si sente come un suono che proviene da un luogo che sembra ordinario. In senso reale è il tempo presente. È come la stanza è vuota ora, rispetto al suono degli oggetti con il loro significato, con la loro funzione scoperta o trovata.
Questo è un contrasto che ho voluto presentare in modo che, quando si ascolta, si senta che lo spazio sonoro cambia come se fosse a strati. Si cambia la messa a fuoco, come quando si guarda qualcosa con gli occhi, si spostano gli occhi concentrandosi su parti diverse di un’immagine, e il tempo cambia mentre si guarda questa particolare parte dell’immagine. Allo stesso modo si cambia il tempo dato da questa illusione dello spazio sonoro, perché siamo nel tempo presente rispetto all’oggetto come è sempre stato usato in quell’ambiente più piccolo e più intimo, il piccolo gönpa.
Ho creato questi due ambienti diversi nella composizione in modo molto chiaro, affinché possiate avere questo tipo di esperienza. E si può sperimentare qualcosa come i suoni che provengono dalla propria infanzia rispetto a quelli di quando si è adulti o più grandi. Ho cercato di essere molto coerente in questo, in modo che quando si sentono tutti questi suoni, essi siano anche riconosciuti per il loro ambiente e che ci si possa effettivamente relazionare con quello perché, quando si ascolta, la gente crea la propria idea, il proprio mondo virtuale con questi suoni. Per me era importante che questo mondo fosse coerente, in modo che si potesse scoprire che è un mondo familiare che diventa sempre più familiare più si ascolta questo lavoro.
E poi alla fine si può capire come una certa esperienza sia anche legata alla relazione con il Maestro. Comprendendo questo, probabilmente si capisce anche come ci si relaziona con l’Insegnamento. L’uso degli oggetti fa la differenza. Gli oggetti hanno il potere di portare con sé questo tipo di esperienza.
M: Attualmente stai completando la tua formazione in musica elettronica presso il Conservatorio di Musica di Firenze e componi musica al computer. Ci sono dei motivi per cui hai scelto questo particolare campo di studi?
NY: Come ho detto, ho pensato che il suono fosse un vuoto da colmare perché sono già passati alcuni anni e onestamente non ho visto molta evoluzione, almeno per quanto riguarda l’aspetto della Comunità Dzogchen, l’Insegnamento ecc… Forse non ne so abbastanza di quello che sta succedendo, ma il punto è che non ho visto nulla che fosse davvero una rivelazione di qualcosa che sta funzionando. Con l’avanzare dell’età, ho pensato che è arrivato il momento di fare qualcosa e mi piacerebbe farlo con la musica, anche se non posso dire che abbia avuto un’idea molto chiara.
Inizialmente pensavo solo a fare qualcosa che mi piacesse, perché prima non ne avevo mai avuto il tempo. Molte persone pensano che io passi la mia vita a fare le mie cose, ma non è vero. Ho sempre sostenuto mio padre per tutta la vita. Così ho pensato che forse ora posso avere un po’ di tempo libero, visto che ci sono persone che si occupano della Comunità, che insegnano e così via, e forse per la prima volta nella mia vita posso dedicare un po’ di tempo a me stesso e fare qualcosa di interessante.
La mia idea iniziale era quella di studiare musica nel senso più comune del termine. Il tipo di musica che fai dal vivo, qualcosa che accade, non qualcosa che imposti o crei di proposito in studio.
Poi ho deciso di frequentare una scuola di musica elettronica e ho scoperto per caso che a Firenze c’era una delle migliori scuole storiche d’Europa. Ho scoperto che c’è una tradizione interessante proprio qui a Firenze e ho conosciuto la persona che coordinava il corso di composizione e ho iniziato a studiare con questa idea. Poi ho capito che c’è molto in comune, molto che posso applicare per dare una svolta al modo di concepire l’Insegnamento stesso.
Fin dall’infanzia sono stato cresciuto con l’idea che ogni dieci anni al massimo bisogna fare un ngondro. L’ho fatto già tre volte nella mia vita e ogni volta è stato più lungo. Ho pensato che ora lo farò per cinque anni. Mi ci sono voluti tre anni perché quando ho parlato con il coordinatore mi ha detto che è molto difficile da fare se non si ha esperienza in generale, in termini di allenamento della mente, di allenamento dell’orecchio.
Fin dall’inizio ero pronto a dedicare almeno tre o quattro anni, perché non ho mai fatto tutti i miei ngondro in meno di tre o quattro anni. Mio padre mi disse: tu devi farlo, tu devi scegliere cosa studiare, non come nel buddismo tradizionale in cui qualcuno ti dice cosa fare. Quando sei un praticante Dzogchen, tu devi scegliere quello che vuoi fare e quello che fai deve avere un legame e una connessione molto forte con l’insegnamento e la conoscenza che hai. Quindi, intraprendi un corso di studi o un impegno a fare qualcosa per alcuni anni che migliorerà seriamente la tua conoscenza, intendendo la conoscenza dello Dzogchen. Prendi questo tipo di impegno e lo devi portare a termine, ottenendo un qualche tipo di risultato.
Quando ho iniziato, non avevo realmente questa idea, ma qualche mese dopo, la prima volta che ho sentito una specie di musica molto strana fatta di suoni, di rumori – suoni davvero inquietanti come se fossero stati fatti nei primi anni ’50 con apparecchiature per testare le onde per i laboratori di fisica – ho capito che c’era qualcosa di interessante da scoprire che poteva essere un modo da ripensare totalmente e avere delle intuizioni interessanti. Così ho proceduto in questo studio e ora ho pubblicato il mio primo lavoro.
Moltissime grazie per il tuo tempo e per questa intervista.
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