Il valore della parola nell’antica tradizione indo-tibetana

Venezia, 5 Ottobre 2019

Siamo a Venezia, nella bella Scoleta dei Calegheri, la sala è al completo.
Fabian Sanders è stato invitato a tenervi la conferenza dal titolo esplicito e profondo: Il Potere del Suono, Il valore della parola nell’antica tradizione indo-tibetana.
La Comunità Dzogchen veneziana (Gyamtsholing) in collaborazione con International Atiyoga Foundation ha organizzato questo incontro aperto al pubblico su un tema tanto vasto quanto affascinante, ricco di spunti sia per praticanti sia per neofiti.
Anamaria Humeres, Gakyil Blu di Gyamtsholing con Giovanna Carraro e Marco Baseggio, Presidente dell’ATI, fanno gli onori di casa per presentare la Comunità e la Fondazione al pubblico prima che Fabian cominci, come lui la definisce in modo leggero, la sua ‘ciarla’.

“Il suono è considerato un elemento principale della manifestazione sia in India sia in Tibet” – comincia a spiegare Fabian. E prosegue illustrando il ‘punto di vista’ dal quale partirà per spiegare la rilevanza essenziale del suono nelle tradizioni indiana e tibetana, qui strette in un abbraccio giustificato dalla tematica e dall’eredità tibetana di alcuni aspetti preesistenti in India nel momento della nascita del buddismo tibetano così come fu introdotto in Tibet dal grande Maestro Padmasambhava.

“Siamo in un contesto in cui l’universo può essere immaginato come pulsante, come un’immensa agglomerazione di aspetti che si espandono fino a un estremo limite (un luogo, una figura
di pensiero) e raggiunto questo estremo limite si ritraggono per passare in una dimensione, un luogo di latenza, per poi rimanifestarsi – illustra Fabian – Un po’ come accade, da un punto di vista buddista, agli esseri individuali; questi sono concepiti, si formano, si sviluppo, danno luogo a tutte le proprie possibilità, le espletano e alla fine muoiono e, nell’ottica in cui ci troviamo, dopo un periodo intermedio, rinascono e in questo modo pulsano, sono come delle micro pulsazioni all’interno di una macro pulsazione”.

Quando l’universo si ritira in se stesso ed entra in un momento di latenza, possiamo dire che diventi un buio di possibilità, tuttavia in seguito l’universo deve rimanifestare tutte le proprie potenzialità. Dal punto di vista buddista queste potenzialità, o possibilità, sono le cause accumulate dagli esseri viventi nel ciclo precedente; dunque le modalità e la struttura del nuovo universo saranno determinate dalle azioni accumulate dagli esseri nel mondo o nei mondi precedenti.

Ed ecco il punto cruciale che ci porta al tema specifico della conferenza: “Questo primo movimento verso la manifestazione si dice sia il vento, o prana, o lung (in sanscrito e tibetano) questo vento si espleta, esce dalla non manifestazione sotto forma di suono”.
Si tratta in questo primissimo attimo di un suono sottile, così definito perché si tratta di una vibrazione energetica che si espande da questo centro in tutto l’universo. E non appena il suono si propaga lo accompagna la luce, che è un’altra forma di energia. “È interessante notare – sottolinea Fabian – come affinché vi sia un suono è necessario che vi sia il tempo” .
Senza tempo il suono non può manifestarsi perché solo quando gli istanti si susseguono uno diverso dall’altro può esserci il suono che rimarrebbe, altrimenti, compreso in se stesso. “Per la manifestazione della luce, invece, deve esserci lo spazio, se non c’è lo spazio la luce non lo può evadere”.

Suono, luce e raggi: simboleggiano insieme la prima potenzialità di manifestazione, laddove i raggi simboleggiano “l’espansione illimitata priva di interruzione che questi due elementi, insieme, producono”.
Siamo al cuore di questa ‘ciarla’ che conduce i praticanti presenti lungo una via conosciuta.

“Il suono primordiale è al di là del pensiero discorsivo, pervade la totalità della natura dello spazio…questo suono si esprime (e, generalmente, si dice sia) con il suono A… – e Fabian chiarisce – Il suono A , che è usato nelle pratiche come mantra seme, è pronunciato dall’esser umano con tutti gli organi fonatori aperti, è il suono che si pronuncia con la massima apertura di tutto: la gola, la bocca, la lingua è abbassata sulla base, le labbra sono divaricate e così è la mascella. È considerato come la somma di tutti gli altri possibili suoni, ogni altro suono (vocale o consonante) è una parzialità di quel suono, così come i colori sono parzialità della luce bianca”.

In un contesto siffatto la vocale A, insieme alle altre vocali, è la vita di ogni suono e infatti in tibetano nessun suono può essere pronunciato senza una vocale mentre le consonanti sono la morte del suono. La parola è viva solo con la vocale e se questa manca ogni sillaba è solo un’occlusione, una negazione: questa possibilità di occlusione è l’origine del dualismo; attraverso questa interruzione si frattura l’espansione del suono nello spazio.

suono potere

Foto di Annamarie Humeres

“Il suono dunque parte come A e poi si differenzia, subisce interruzioni, modifiche… si formano le sillabe… che, mano a mano, grossolanizzandosi diventano i fenomeni” – prosegue la spiegazione facendosi più fitta.

È giunto il momento della comparsa degli esseri viventi che debbono continuare la propria epopea attraverso la ghirlanda dei mondi. “Gli esseri hanno come primo aspetto della propria esistenza l’ignoranza, questa li conduce a concepire un sé e un altro da sé… ce l’hanno in virtù della costruzione fittizia di un ego. Pensando di percepire degli oggetti – ribadisce Fabian – la mente gli da un nome perché diversamente non può concepirli”.
Così la mente si discosta sempre di più da quello che il Maestro Paltrum Rimpoche chiama “il suono della voce del Buddha”. La mente si lascia travolgere in un ‘chiacchiericcio’ continuo, passando da una parola all’altra, da un suono all’altro.
La base della pratica è riuscire a osservare il flusso mentale senza corrergli dietro e, per riuscire in questo intento, si può ricorrere a un mantra, formula ereditata dall’India, “stringa di suoni che non va presa per il proprio significato, l’aspetto primario che ha è il suono”. Il praticante si immerge e riverbera di quel suono prendendo le distanze dalla mente ordinaria.
Una delle etimologie della parola mantra è man =mente (ordinaria) e tra = protezione: il mantra è dunque la protezione della mente dalla mente stessa.

Concludiamo con una citazione riportata durante la conferenza del grande Maestro Shantideva, un augurio per tutti noi praticanti: “possano tutti gli esseri che hanno un corpo udire incessantemente il suono del dharma dagli uccelli, dagli alberi, dai raggi di luce e anche dal cielo”.

Sabina Ragaini