Raimondo Bultrini continua a raccontare i suoi viaggi e le sue esperienze con Chögyal Namkhai Norbu in Tibet nel 1988. A Nyaglagar, residenza del maestro radice di Rinpoche, Changchub Dorje, il Maestro guida una puja per consacrare i chorten e Raimondo cerca la grotta di uno dei sogni di Rinpoche.

Consacrazione dei chorten

La visita di Namkhai Norbu a Nyaglagar è un avvenimento eccezionale per molti motivi. Primo tra tutti il ruolo che riveste la figura di un “reincarnato” nella cultura del popolo tibetano. Il “tulku” è un po’ parente della divinità stessa, e la sua sola presenza benedice luoghi e persone. Inoltre a Nyaglagar Namkhai Norbu fu uno dei discepoli più importanti del lama fondatore. Per questo gli chiedono di consacrare con una lunga cerimonia tutti i chorten e i luoghi di culto.

La forma e il rituale hanno la loro importanza, perché di fatto sono stati invitati in casa degli ospiti, anche se invisibili. È buona regola quindi offrire nel modo dovuto dolci, liquori, cibo.

Così la cerimonia è anticipata da una puja, un banchetto che – vista l’eccezionalità dei convitati – segue modalità un po’ particolari. La puja è un altro rituale caratteristico delle religioni orientali, durante il quale le offerte sono presentate dapprima alle divinità e agli esseri superiori, poi a se stessi, infine agli esseri inferiori e a tutti gli altri che si intende beneficiare.

Video di Raimondo Bultrini. Video e screenshot per gentile concessione dell’Archivio di Merigar

Trent’anni dopo, a Namkhai Norbu sono offerti i panni e gli oggetti del suo maestro per guidare la grande puja che inizia al mattino presto nel tempio. Le visite nella nostra stanza diventano così più frequenti e veloci.

I preparativi avvengono tutti nel tempo. Su di un altare illuminato da centinaia di lampade al burro sono già pronte le offerte dei torma, impasti modellati di tsampa, burro e zucchero a forma di cono, al quali si aggiungono piccole palline di solo burro, che conferiscono ai torma delle forme da bambole. Sostituiscono simbolicamente le vittime dapprima umane poi animali che venivano offerte anticamente alle divinità. C’è anche del semplice cibo, riso, carne, dolce, liquori.

Tutto viene autenticato dai mantra all’inizio della cerimonia, ma io non vi partecipo. Namkhai Norbu è categorico: “La tua presenza è inutile, non sai nemmeno leggere i testi”. In questo caso i rituali sono fondamentali, perché le offerte vengono destinate attraverso i gesti e le intenzioni a esseri che non possono goderne nella loro forma materiale. Un paragone molto azzardato può essere fatto con il cibo il vino della liturgia cristiana, ma solo come principio di trasformazione, di transustanziazione dalla offerta materiale. E questo richiede pratiche precise, formule di comunicazione tra esseri che parlano lingue differenti.

Quando giungo al tempio un’ala di folla che non ha trovato spazio all’interno si apre per farmi accomodare nella grande sala degli affreschi. L’interno ha completamente cambiato fisionomia rispetto ai giorni precedenti; da una parte siedono monaca e praticanti, dall’altra le donne raccolte intorno alla vedova del figlio di Changchub Dorje, a Sonam Palmo e Phuntsog.

Cantano salmodiando con toni bassi, interrotti da acuti di trombette e conchiglie, rulli di damaru e tamburi. Ogni tanto Rinpoche, assistito da Karwang, asperge le offerte di vino dolcissimo che viene poi distribuito nella sala. Tutti bevono un sorso e versano il resto sul capo. Intendono nutrire cosa corpo e mente con il nettare della purificazione, precedentemente offerto alle divinità.

A un tratto la cerimonia s’interrompe e nel tempio c’è un gran trambusto. Namkhai Norbu, Karwang e gli altri lama si stanno cambiando d’abito è giunto il momento centrale della giornata. La processione degli officianti sta uscendo per consacrare chorten e templi. Con la telecamera riprendo la folla che si è già riversata all’aperto e scatto anche qualche foto. Molti sono i bambini, naturalmente curiosi, che vogliono vedere la telecamera e la macchina fotografica, ma, rispettosi, non toccano nulla. Uno di loro, che si è offerto di orgoglioso con la mia borsa a aiutarmi, gira tracolla e mi segue ovunque silenzioso.

Intanto, dalla porta del tempio escono in fila i monaci e i lama, compiono un giro in senso orario intorno all’edificio e lo stesso faranno con tutti i chorten, disseminati lungo il perimetro del villaggio. La gente si accalca nelle strade, sale sulle collinette di terra, riscende verso il flume, segue il corteo e lo precede. Questa cerimonia ha qualche vaga esteriore somiglianza con la processione cristiana, ma tutto intorno è Tibet e buddismo: il suono dei corni e dei tamburi, il forno dove bruciano con i cipressi le offerte di cibo della ganapuja e quelle portate dalle case della gente. Davanti a ogni chorten il corteo si ferma mentre i lama lanciano chicchi di riso e acqua cantando mantra. Io corro lungo le stradine strette per giungere in anticipo sugli altri e filmare con la telecamera, sempre seguito dal ragazzino con la borsa delle macchine fotografiche a tracolla. Non ho quasi più forze quando c’è l’ultima sosta davanti al chorten più grande, dove probabilmente saranno deposte in futuro le reliquie di Changchub Dorje.

Comincia un lungo canto accompagnato dal suono degli strumenti. Rinpoche si trova ormai al centro del gruppo degli officianti. Nella mano sinistra tiene un campanello, con la destra muove un dorje con gesti ripetuti, lenti, ellittici. Il canto monocorde e basso è trasportato dal vento dell’altopiano, mentre il pubblico assiste in piedi, serio e assorto, ma anche incuriosito e divertito da questa giornata fuori dall’ordinario che il villaggio sta vivendo.

Al ritorno nel tempio la ganapuja riprende e tutti siedono nuovamente ai propri posti. È il momento dell’offerta del cibo, che rappresenta l’esperienza dei sensi. In un’unica ciotola vengono accomunati sapori dolci e salati, acri e piccanti: la scelta significa che le diverse esperienze dei sensi hanno un unico valore per chi conserva la presenza dello stato di contemplazione.

Uno dei giovani monaci incaricati di distribuire le ciotole, ne offre una anche a quattro personaggi appoggiati alla porta del tempio che non sembrano avere affatto l’aria di abitanti del villaggio. Hanno volti di tibetani ma vestono all’occidentale, e la loro presenza è strana in questi luoghi dove si arriva solo a cavallo. Sono poliziotti spediti da Qamdo, il capoluogo distante un paio di giorni da qui, per controllare i nostri permessi. Evidentemente qualche segnalazione è giunta al loro comando. Hanno modi sgarbati e arroganti, e soprattutto il più anziano insiste molto sul fatto che il mio permesso non è valido.

Namkhai Norbu, pur mantenendo uno sguardo freddo, senza espressione, e visibilmente irato. Quando li sente parlare in lingua mandarina gli chiede: “Ma voi non siete tibetani?” I poliziotti rispondono di sì, poi cercano di giustificarsi con delle scuse: “Pensavamo che lei non comprendesse il dialetto di Lhasa”. E lui: “In ogni caso si può intuire che capisco meglio il dialetto di Lhasa del cinese”.

L’incontro, mentre i monaci servono dolci e cibo agli indesiderati visitatori, si conclude senza alcun problema per il mio soggiorno e la puja riprende regolarmente. Sono sempre più colpito dalla gentilezza di tutti, anche nei confronti dei poliziotti, rappresentata di un potere qui praticamente invisibile, ma che è legato soprattutto al ricordo delle inutili violenze della Rivoluzione.

Raccontano che in quegli anni, poiché i cinesi non avevano abbastanza munizioni, facevano affluire nella zona di Qamdo un gran numero di prigioniera tibetani e poi li facevano sdraiare al suolo lungo la strada su due file parallele con le teste allineate, in modo che le ruote del camion potessero passarci sopra.

Sempre provo un certo imbarazzo a sentire questo tipo di racconti e più di una volta mi è capitato di restare incredulo. Come quando mi raccontavano che ai familiari dei detenuti fucilati venivano chiesti i soldi dei proiettili usati dal plotone d’esecuzione se volevano riavere indietro il corpo. Solo dopo la strage di Tienanmen ho scoperto – e con me tutto il mondo – che questa usanza è ancora oggi in vigore.

Dicono che Nyaglagar usci quasi indenne dalle vicende dei vent’anni di terrore, grazie all’impronta profeticamente ​​”socialista” del suo fondatore. Lo stesso Changchub Dorje contribuiva alle attività del villaggio con il suo lavoro di medico, che lo aveva reso famoso in gran parte del Tibet, e possedeva un carisma che non lasciava indifferenti neppure i nemici della religione. Sarebbe bastata l’accusa di uno dei tibetani della zona passati al nuovo regime per condannarlo a morte. Ma il lama visse molto a lungo, oltre 130 anni, secondo i calcoli dei discepoli più anziani. E quando i cinesi vollero processarlo, nessuno parlò contro da lui.

Il sogno del Thögal

Man mano che vengo a sapere i particolari della vita di quest’uomo così longevo e fuori dalla norma, vorrei conoscere tutto di lui, oltre a coltivare il solito segreto desiderio di vedermelo comparire davanti da un momento all’altro.

Quando per la prima volta entriamo nella casa dove aveva vissuto Changchub Dorje siamo seguiti da un nutrito gruppo di persone. Il nipote Karwang ci indica due grandi casse di legno dentro una stanza buia. Pare che qui sia conservato il corpo sotto sale del maestro. Tutti sono in raccoglimento, mentre io resto un po’ deluso. Mi aspettavo prodigi, e invece non succede un bel nulla.

Raimondo nel 1988 di fronte alla casa di Changchub Dorje’s a Khamdogar, dove il corpo del maestro era ancora conservato grazie all’utilizzo del sale.

Non smetto però di sperare che – dopo avermi visto nella sua stanza – Changchub Dorje comparirà in qualche mio sogno. Invece mi aspetta una notte di febbre, freddo, diarrea. Uno dei monaci che studiarono medicina con il lama mi tocca la fronte e controlla il polso. Poi torna con una decina di microscopiche pillole da masticare e bere con acqua calda. Mi addormento subito. E al mattino la febbre non c’è più.

L’eventualità che un maestro come Changchub Dorje compaia nel sogno non è solo una mia idea stimolata dai racconti dei suoi vecchi discepoli. Lo stesso Namkhai Norbu deve ai sogni le svolte storiche della sua vita. La prima volta fu quando vide il maestro e il suo villaggio con tanta dovizia di particolari da riconoscerli nella descrizione del viaggiatore che tornava proprio da Nyaglagar, convincendosi a mettersi in viaggio per venire qui. Accadde la stessa cosa molti anni dopo, quando Rinpoche si era ormai stabilito in Occidente.

Insegnava già il tibetano agli studenti dell’università di Napoli e stava per sposarsi con Rosa, una giovanissima ragazza italiana conosciuta a Roma. Molti studenti gli erano affezionati e da tempo insistevano perché – al di là dei normali corsi dell’università – Namkhai Norbu trasmettesse anche gli insegnamenti che aveva ricevuto in Tibet.

Il giovane lama-professore non osava però andare incontro al rischio di parlare del Dharma a persone tra le quali ve ne fosse anche una sola non realmente interessata, e non si sentiva mai pronto. Nei suoi sogni, che corrispondevano anche a desideri profondi e naturali, tornava spesso in Tibet, quella terra che la politica gli impediva fisicamente di rivedere. Non di rado la mente viaggiava verso Nyaglagar, uno degli ultimi luoghi visitati prima di lasciare il paese delle nevi.

Namkhai Norbu era uno di quei discepoli in grado di praticare anche senza doversi sedere in meditazione. Applicava quindi normalmente il tregchöd, un termine che significa “tagliare ciò che lega”. Quando le tensioni si accumulano dentro, spiegano i maestri, sono come tanti bastoncini che una corda tiene legati insieme saldamente. Tagliando la corda il fascio si scioglie. Con anni di esperienza, Namkhal Norbu era riuscito a integrare pienamente questa pratica nella sua vita quotidiana. Ma il momento del ‘salto’ alle pratiche più avanzate sembrava ancora lontano.

Una notte, tornando nel sogno a Nyaglagar, incontrò Changchub Dorje. Il suo vecchio maestro gli fece qualche domanda sulla vita in Occidente, poi chiese come procedeva la pratica del thögal, che vuol dire “sorpassare ciò che è sopra a tutto”, cioè oltre l’ordinario controllo della mente e dei sensi. Insegnamento avanzato e tra i più segreti, richiede un perfetto controllo della propria condizione di corpo, voce e mente: quindi un tregchöd ben stabilito.

Changchub Dorje aveva già introdotto il giovane tulku a thögal durante la sua presenza fisica a Nyaglagar. Ma quando senti che Namkhai Norbu non aveva fatto nessun progresso in quella direzione, lo invito a recarsi immediatamente da un famoso maestro, Jigme Lingpa. Namkhai Norbu ne fu piuttosto sorpreso, perché Jigme Lingpa era vissuto più di due secoli prima. Ma, conoscendo la severità di Changchub Dorje, che non amava vedere messi in discussione i suoi consigli, il discepolo preferì non contraddirlo. Si avviò così senza indugi verso il luogo indicato, proprio al di sopra del villaggio di Nyaglagar, arrampicandosi su rocce levigate e sulle quali erano scolpiti proprio i versi dei tantra del thögal, la nuova pratica che andava cercando.

Evitando di calpestare le scritte sacre, giunse in cima ed entrò in una grotta secondo le indicazioni del maestro. Li, con sua grande sorpresa, c’era solo un bambino dai lunghi capelli che cominciò subito a leggere il testo su un piccolo rotolo di papiro: la pratica delle quattro luci del thögal. Questo e altri sogni furono determinanti per il praticante esule in Italia. Si sentì finalmente certo del fatto suo e sicuro di non insegnare al suoi studenti cose slegate dalla propria diretta esperienza.

È un po’ qui il senso della trasmissione di una conoscenza. “Se cerchiamo di capire com’é fatto un oggetto al centro di una stanza buia – mi spiega Namkhai Norbu – possiamo ascoltare molti discorsi fatti per descriverlo. Ci diranno che è tondo o quadrato, alto o basso, opaco o trasparente. Ma solo con l’esperienza diretta possiamo sapere davvero cos’è. Il maestro è colui che accende per un istante la luce nella stanza e ci permette di vedere da soli, come un flash, che cosa è realmente quell’oggetto.”

Alla ricerca della grotta

Chiacchierando con i lama di Nyaglagar, Namkhai Norbu racconta anche a loro la storia del sogno. Sentita la descrizione del luogo, tutti sono sicuri che la grotta esiste realmente, e che è distante solo alcune ore dal villaggio.

Naturalmente mi offro subito di andare, ma Rinpoche pensa che sia troppo rischioso. Per raggiungerla occorre usare una scala di legno molto alta e appoggiata a una roccia su uno strapiombo. Le scale tibetane non hanno pioli dove posare comodamente i piedi, ma semplici incavi ricavati nel tronco non più largo di 20, 30 centimetri. Solo dopo due giorni di insistenze da parte ma, vengo autorizzato a cercare la famosa grotta, a piedi e accompagnato da due ragazzi.

Jedup e Tsema Nongro sono buoni scalatori e tengono un passo celere. lo non riesco a stargli dietro, ma si fermano spesso ad aspettarmi. Per quattro ore camminiamo in salita prima di raggiungere una grande cima di roccia dove sono appoggiate non una ma due pericolose scale di legno. Namkhal Norbu ha potuto raggiungere questo posto in sogno, io invece devo arrampicarmi con il mio corpo fisico, ancora malaticcio.

Prima di raggiungere la grotta, completamente stremato dalla fatica, i due giovani accompagnatori mi indicano un’altra profonda apertura nella roccia dove c’è una statuina di Dolma Tara che si ritiene auto-originata. La sua forma è abbastanza ben modellata e ricoperta di abiti in seta, come una bambolina. Non posso credere che sia stata scolpita da madre natura, ma la roccia della caverna è così dura che sembra difficile da modellare anche con lo scalpello.

Continuiamo a salire fino alla nostra meta, incontrando altre grotte di varie dimensioni, dove spesso sì formano specchi d’acqua purissima ornati da grandi ninfee galleggianti. C’è un’altra ‘scala’, questa praticamente sospesa nel vuoto, su cui inerpicarsi prima di raggiungere la cima che ospita la grotta. L’interno della caverna è protetto da un muro di legno, perché negli ultimi anni molti yogi sono rimasti in ritiro qui dentro. C’è un primo anfratto da roccia nuda, poi una nuova porta di legno e la stanza di meditazione con molti oggetti inaspettati: un tavolino, qualche statuina, strumenti rituali.

L’interno della grotta trasmette un’energia fortissima che amplifica il suono degli stessi mantra. I due ragazzi accendono i rami di cipresso dal profumo intenso, e le aquile volano sulla valle, illuminata a tratti dal sole che entra ed esce da nuvole scure che minacciano pioggia. Bisogna sbrigarsi a scendere, ma restiamo tutti e tre immobili e incantati a guardare il grande precipizio sotto di noi che prosegue come un’enorme ferita tra le montagne, fino alla valle, oltre il fiume di Nyaglagar.

Al ritorno descrivo ogni dettaglio a Namkhai Norbu, ma non sembra molto interessato alla grotta che ho visitato. È assai più incuriosito da un’apertura rotonda che ho visto sul fianco della montagna vicina, praticamente irraggiungibile a meno di non trasformarsi in aquile. Potrebbe anche essere quello il luogo del sogno, ma fortunatamente non mi chiede se me la sento di tornare.

Il mio lato mistico sta ormai prendendo decisamente il sopravvento e sono proprio ansioso di entrare in contatto diretto con Changchub Dorje. Di mattina presto partiamo con Namkhai Norbu e il solito drappello di persone per un’escursione nel cuore della montagna che sovrasta Nyaglagar. Giunti alla grotta degli insegnamenti, proseguiamo verso una volta naturale che dà accesso a una fitta rete di cunicoli dove Changchub Dorje scopri la speciale argilla che usava per medicine e oggetti sacri.

Qui Namkhai Norbu m’impedisce di proseguire oltre, con una battuta tagliente. “È inutile che tu mi segua, – dice – tanto la tua è solo curiosità”. Sento nuovamente il mio orgoglio ribollire e mi carico di tensione. Qual è allora la differenza tra la sincera volontà di conoscere e la curiosità? Non è un interrogativo di poco conto. Mette in discussione molta parte del mio passato e le mie convinzioni.

È ormai sera, siamo rientrati da qualche ora. Ripenso all’episodio della grotta e ammetto che, sì, ero prima di tutto curioso. Ma sento di aver davvero voglia di capire qual è la chiave che apre la porta del segreti di questo luogo. Con questo desiderio mi addormento, ascoltando nuovamente il suono dei lunghi corni che si diffonde cupo tutt’intorno.

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Parte 1 – Chögyal Namkhai Norbu a Chengdu
Parte 2 – Background dei viaggi in Tibet
Parte 3 – Verso Derghe
Parte 4 – Da Galenteen alla Valle del Gheug, luogo di nascita del maestro
Parte 5 – Sulla strada per Nyaglagar
Parte 6 – Il Maestro del Maestro
Parte 7 – Aspettando il miracolo
Parte 8 – La grotta dei Mamo
Video di Chögyal Namkhai Norbu in Tibet 1988