Dalla fondazione di Merigar, il primo Gar Dzogchen fondato negli anni ’80, c’è una grande quantità di materiale registrato e stampato degli insegnamenti e delle attività del Maestro ma ci sono molte meno fonti che raccontano i primi giorni della vita di Rinpoche a Napoli e i suoi primi insegnamenti negli anni ’70 prima che la Comunità di Dzogchen fosse fondata in Toscana. In questo numero siamo felici di offrire alcuni resoconti di alcuni dei suoi primi studenti napoletani e un’intervista con Adriano Clemente sul periodo in cui Rinpoche era Napoli fino alla fondazione di Merigar.
Parte di questo materiale è stato pubblicato nel numero 111 del The Mirror, agosto 2011, qui riveduto e corretto.
Incontrare il Maestro
Intervista con Adriano Clemente
The Mirror: Adriano, sei stato tra i primi studente di Chögyal Namkhai Norbu e vogliamo chiederti come hai incontrato Rinpoche negli anni ’70 quando lui insegnava Yantra Yoga a Napoli e se ci puoi dire qualcosa sulle attività di allora fino a quando a Merigar non è stato fondato il Gar.
Adriano Clemente: non c’ero quando Rinpoche ha iniziato a insegnare Yantra Yoga al primo gruppo di Napoli perché l’ho incontrato a gennaio 1975. Quello che so è che negli anni ’60 Rinpoche era invitato da diverse associazioni culturali o dall’ISMEO per delle conferenze sullo yoga tibetano o sul tantra ed è stato in seguito a queste conferenze che qualcuno ha cominciato a chiedergli di insegnare Yantra Yoga.
A Napoli, un certo Procaccini, che aveva già organizzato diversi corsi come l’Akido, un’arte marziale giapponese, il Tai Kwando ecc., chiese diverse volte a Rinpoche di insegnare Yantra Yoga finché Rinpoche non accettò iniziando a insegnarlo al Palazzetto dello Sport nel 1971. Allora Rinpoche viveva a Torre del Greco, una piccola città vicino a Napoli. Quando iniziò a insegnare tra i partecipanti c’erano Nicoletta Liguori e Roberto Ventrella con cui divenne amico andando a vivere con loro a Napoli in una villa a Gaiola.

La casa del Maestro a “la Gaiola” vista dal mare, dalla baia del Trentico a Posillipo. Storicamente per gli antichi romani Gaiola era un luogo in cui dedicarsi all’Otium
Rinpoche ha insegnato al Palazzetto dello Sport per una paio d’anni. A novembre 1974, quando un qualche modo ero entrato nel dharma, la prima cosa che volevo imparare era lo yoga ma allora, a Napoli, l’unico corso di yoga era quello hatha yoga insegnato da uno swami indiano chiamato Satyananda. Questo significa che in quegli anni Rinpoche non dava insegnamenti fino all’anno seguente. A gennaio 1975, subito dopo averlo incontrato, iniziò un nuovo corso di Yantra Yoga, da gennaio a giugno.
M: hai partecipato a questo corso?
AC: non ho partecipato all’intero corso ma alcuni miei amici sì e a volte andavo da Rinpoche per fargli delle domande.
Dal 1972 al 1974, soprattutto quando Rinpoche viveva a Gaiola con Nicoletta e Roberto, c’era un piccolo gruppo di persone a cui Rinpoche dava degli insegnamenti, spiegazioni e pratiche come la pratica della purificazione di Vajrasattva. Era un piccolo gruppo di circa sei, sette persone tra cui Gennaro Anziano, Antonio Morgione, Sergio Campodonico, Ciro Marolda, Natale Musella.

Un parco con le rovine romane dove il Maestro, la sua famiglia e gli amici spesso andavano per rilassarsi e fare un picnic. Gli piaceva riposare su di una amaca attaccata a due pine del parco .
Sono entrato stabilmente nel circolo di Rinpoche a ottobre 1975. Rinpoche allora viveva a Pozzuoli, vicino a Napoli, e tutti i sabati ci incontravamo a casa sua e lui dove ci offriva il tè e rispondeva alle domande che tutti gli facevano. Il gruppo stabile era opposto da dieci, dodici persone tra cui Ramon Prats, che aveva incontrato Rinpoche nel 1972 o 1973 e che dalla Spagna era venuto espressamente per incontrarlo e per studiare tibetano all’Università L’Orientale.
Rinpoche rispondeva ad ogni tipo di domande sul buddismo tibetano, sulla spiritualità, su Gesù, su Buddha e alcune di queste domande e le risposte si trovano nel libro Introduction to Dzogchen in Sixteen Answers (introduzione allo Dzogchen in sedici risposte). Otto delle domande vengono da quel periodo. Se Rinpoche riteneva importanti le domande e le risposte per il futuro le trascriveva ed è così che è nato il libro (questo libro è stato ristampato recentemente con il titolo Dzogchen: Our Real Condition).
Allora l’unica cosa che Rinpoche insegnava e che le persone praticavano era la pratica di purificazione di Vajrasattva e anch’io l’ho imparata. Da novembre a febbraio 1975 lo incontravamo a casa sua dove rispondeva alle domande delle persone. Poi a un certo punto gli incontri si svolsero a casa di Ramon e di Antonio a Riviera di Chaia, a Napoli. Invece di andare a casa di Rinpoche andavamo lì il venerdì. Poi tutti iniziarono a chiedere a Rinpoche di iniziare a dare insegnamenti e lui rispondeva: “La prossima volta”. Ma non succedeva mai e siamo andati avanti così per tre mesi, da novembre a febbraio.
Poi un venerdì non sono potuto andare e qualcuno mi chiamò dicendomi che Rinpoche aveva deciso che avrebbe iniziato a dare insegnamenti il venerdì successivo ma solo a chi era stato presente il venerdì precedente e io non c’ero stato. Il venerdì andai con un mio amico e qualcuno mi disse che non avrei potuto restare perché Rinpoche aveva detto che poteva partecipare solo chi era stato presente il venerdì precedente. Ovviamente non mi mossi di un millimetro finché Rinpoche non disse: “Ok, inizierò con i presenti”. Iniziò con il potenziamento di Vajrasattva e qualcosa accadde, un vaso cadde e ci furono altri segni. Eravamo a casa di Ramon e da quel momento in poi gli incontri si svolsero presso la palestra Palasciano. È qui che ho incontrato per la prima volta Rinpoche in occasione di una sua conferenza sul Bon a gennaio 1975 ed è sempre qui dove insegnò Yantra Yoga dal 1975 in poi. Prima di allora aveva insegnato al Palazzetto dello Sport, un’enorme costruzione con dentro molte palestre.
M: che anno era, 1975 o 1976?
AC: era febbraio 1976 quando Rinpoche ha dato il ciclo completo di Insegnamenti Dzogchen. Da febbraio a giugno 1976 tutti i venerdì ha dato insegnamenti Dzogchen Upadesha, i rushen esterno interno, tregchöd, bardo, tummo, phowa e molti altri. Eravamo in dodici, più un cane, in una piccola stanza di un’antico palazzo napoletano fornito di attrezzatura da palestra. Abbiamo ricevuto questi insegnamenti completi finché a giugno Rinpoche disse, “Ora dobbiamo applicare la pratica, dobbiamo andare da qualche parte in montagna in tenda e avere delle esperienze concrete della pratica”.
Nel frattempo, dall’anno precedente, Rinpoche era in contatto con Laura Albini a Roma, che era un punto di riferimento per il Centro Karma Kagyu, un centro per il Karmapa e Kalu Rinpoche. Avevano chiesto più volte a Rinpoche di insegnare, ma lui aveva sempre rifiutato. Rinpoche si era recato una o due volte a Roma per incontrare Laura e a un certo punto decise di iniziare a dare insegnamenti ad alcuni dei Karma Kagyu di Roma, di Milano, come Guliano Casiraghi e Aldo Oneto, e anche della Sardegna che erano più orientati al Gelugpa, come Mariano e Anna Dessole. Laura Albini organizzò tutto per fare un ritiro a Subiaco. Era il 1976. Il ritiro di Subiaco andò avanti per molto tempo. Un gruppo di cinque di noi, provenienti da Napoli, vi si recò per soli tre giorni perché Rinpoche stava tenendo un Rigpai Tsalwang e ci aveva detto di venire per quei tre giorni. C’erano Ciro Marolda, Antonio Morgione, Eugenio Amico, Enzo Desio e io.
Quando sono andato a Subiaco ero un po’ perplesso dall’impressione che avevo di questi praticanti buddisti perché il modo in cui Rinpoche ci insegnava a Napoli era al di là di qualsiasi sistema tradizionale. Era diretto e non recitava invocazioni o preghiere e non usava parole tibetane. Insegnava le esperienze attraverso la pratica e non facevamo alcuna pratica formale del Guruyoga. A Subiaco vedendo tutte queste persone che cantavano mantra, usavano mala mi chiedevo cos’è che stava succedendo. Incontrando Rinpoche sulle scale gli dissi: “Maestro” – chiamavamo Rinpoche Maestro – “Perché qui è così diverso? Perché fanno tutte queste cose?” Mi rispose che le circostanze erano diverse, qualcosa del genere. Poi ho pensato che queste persone ne avevano bisogno ma che non era come dovesse essere veramente. Ovviamente la mia comprensione era errata. Quando Rinpoche insegnò la prima volta è interessante vedere e capire come Yeshi insegni ora, il modo che ha di stare con le persone, che c’è qualcosa, una connessione.
Dopo il ritiro di Subiaco Rinpoche tornò a Napoli e nel 1976 insieme a Giacomella Orofino ed altri mi sono iscritto all’Università di Napoli per studiare il tibetano. Fino ad allora Rinpoche non aveva studenti a sufficienza all’università e non ne era contento perché gli altri docenti non lo ritenevano un accademico. Era contento che fossimo suoi studenti e che seguissimo anche i suoi insegnamenti. Da tre, quattro persone che negli anni ’70 frequentavano le sue lezioni all’università il gruppo crebbe fino a 20 persone. Passavamo molto tempo con Rinpoche, soprattutto alcuni di noi, e dopo le lezioni andavamo a casa sua dove cucinava per noi. È stato uno dei periodi più belli della mia vita.
A ottobre 1976 le sue attività de dharma continuarono con classi di yoga, di medicina e di astrologia. Alla fine del 1976 un po’ di persone dalla Sardegna, alcuni delle quali avevano partecipato al ritiro di Subiaco, invitò Rinpoche per dare insegnanti nella Costa Paradiso tra la fine del 1976 e l’inizio del 1977. Non ci andai. Da febbraio a giugno 1977 tenne tre corsi a settimana: il lunedì insegnava Yantra Yoga, giovedì kumbhaka e tsalung, venerdì Insegnamenti Dzogchen. Gli Insegnamenti Dzogchen erano più o meno gli stessi dell’anno precedente, comprendevano upadesha, rushen e altre pratiche. Il suo corso del lunedì di Yantra Yoga fu l’unico che seguivo.
Insegnava in modo particolare. Prima di ogni altra cosa facevamo i riscaldamenti e poi le nove respirazioni di purificazione seguiti dalla respirazione ritmica e poi facevamo gli otto movimenti e diversi yantra per finire con dei pranayama speciali o cose come il nauli
A luglio 1977 c’è stato quello che io considero il vero inizio della Comunità Dzogchen: tutti i gruppi riuniti in un ritiro a Prata, un piccolo posto vicino Avellino, su di un terreno in collina di proprietà di Rinpoche. Erano presenti tutti i romani che avevano partecipato al ritiro di Subiaco. Alcuni di loro frequentavano già i corsi di Rinpoche all’università come Enrico e Andrea Dell’Angelo. Al ritiro a Prata si mescolarono tutti i suoi studenti, erano presenti 50, 60 persone, e per allora ero una cifra alta. C’erano anche Barry e Nancy Simmons, Fabio Andrico e Tiziana Gottardi.
Subito dopo Rinpoche andò a insegnare in Austria dove conobbe Andrea Leick che stava organizzando i corsi e gradualmente la Comunità Dzogchen si ingrandì sempre di più e Rinpoche iniziò ad andare all’estero.
A Natale 1977 si svolse il magnifico ritiro a Lu Cumitoni in Sardegna dove Rinpoche dette per la prima (e ultima) volta il trilung di un intero tantra, il Kunjyed Gyalpo, che è un tantra lungo, ed altri incredibili insegnamenti. È stato un ritiro davvero speciale. Ad ogni ritiro eravamo sempre di più.
Nel 1978 Rinpoche continuò ad insegnare all’università e quello stesso anno, insieme ad Andrea Dell’Angelo e a Mario Maglietti, andò in India e in Nepal per girare il film Arura sulla medicina tibetana per la RAI. In seguito c’è stato il ritiro a Campomolino, nella Alpi.
Ad aprile e maggio 1979 Rinpoche si ammalò gravemente di ulcera e in seguito un gruppo di praticanti fecero un ritiro a Formia.
M: Rinpoche smise di insegnare per po’ quando si ammalò?
AC: Rinpoche si ammalò tra aprile e maggio 1979 ma quando guarì riprese a dare insegnamenti quello stesso anno. Insegnava ancora all’università quindi dava Insegnamenti durante le vacanze, a Natale, a Pasqua e in estate, quindi non smise veramente di dare insegnamenti. Abbiamo continuato così, affittando posti dove Rinpoche poteva tenere un ritiro fino a quando abbiamo cominciato a pensare di cercare un posto. Nel 1982 alcuni studenti di Rinpoche iniziarono a cercare dei terreni fino a trovare Merigar.
M: Adriano, grazie mille.
Pubblicato originariamente nel The Mirror numero 111, agosto 2011
La presenza di un Mastro perfetto
Antonio Morgione
Camprodon, 3 ottobre 2020
Ho avuto la immensa fortuna di conoscere il Prezioso Gioiello, il Re del Dharma Namkhai Norbu verso il finire del 1972 quando lui e la sua famiglia avevano da pochissimo iniziato ad abitare a Napoli, in una bella località chiamata Posillipo, in una villa a picco sul mare nella baia detta “di tTrentaremi”. Attualmente il luogo è il parco del Pausilypon che è stato oggetto di grandi scoperte archeologiche ed è profondamente diverso da come era negli anni settanta. Allora la casa era di un bel rosso pompeano con un magnifico portico con colonne che dava sull’ingresso della casa, tutto era circondato dal verde. Ed all’ingresso c’erano aiuole con le rose personalmente curate dal Maestro e sua moglie.
Io, una persona comune fra le tante, vivevo in un tipico vicolo di Napoli e non avevo mai lasciato né il mio quartiere nè la mia città. Non avevo idea che potesse esistere nel mondo un paese chiamato Tibet. Però ero affascinato dallo Yoga che conoscevo solo dalle copertine dei libri che vedevo nelle vetrine delle librerie di via Foria in prossimità del museo nazionale.
Avevo molti perché irrisolti e nessuna delle persone con cui avevo rapporti avevano mai la risposte che mi avrebbero acquietato.
Frequentavo, senza entusiasmo, la facoltà di architettura e lì conobbi un signore che era un allievo del Maestro che allora insegnava Yoga al palazzetto dello sport di Napoli. Quel gentile signore mi raccontò che quel suo Maestro era uno Yogi, un principe che veniva dal Tibet e che abitava a Roma e poi a Torre del Greco e poi a Posillipo.
Non mi fu facile conoscere il Maestro da vicino perché non avevo direttamante la possibilità di iscrivermi ai corsi della palestra. Coltivavo l’amicizia con questo signore allievo del Maestro e non appena seppi che lo incontrava anche nella sua casa di Posillipo lo pregai di chiedere il permesso a quel Maestro se potevo andare a trovarlo a casa. Mi fu riferito che sarei potuto andare un pomeriggio con l’amico. Grande felicità!
Non fu facile raggiungere la casa situata all’interno del parco, da posillipo si doveva percorrere una stretta stradina in discesa e poi si doveva scavalcare il cancello di ingresso e cercare di evitare il guardiano con i cani che non era una persona tanto simpatica! Poi si doveva percorrere un tratto di cammino sterrato nel verde e poi si vedeva la casina rossa dove abitava il Maestro e la sua famiglia.
Il Maestro sedeva su un divano all’ingresso della casa insieme a sua moglie. La figlioletta più piccola riposava nella culla ed il figlioletto gattonava. Il suo amico lo salutò. A me disse “si accomodi” ed io rimasi fermo all’ingresso sbalordito ed emozionato. Mi trovavo di fronte ad uno Yogi vero, un principe con lo sguardo fiero e penetrante ma una persona gentile in compagnia della sua moglie che mi sorrideva. Quel momento lo porto sempre con me!
Da quel giorno mi recavo spesso alla casa del Maestro ed andavo anche spesso all’Istituto Universitale Orientale dove lui insegnava lingua e letteratura tibetana e mongola. Ma io andavo per trovare lui e non per studiare. Qualunque conversazione con lui e qualsiasi silenzio mi soddisfavano pienamente, tutti i miei perché erano risolti! Il Maestro anche nelle cose apparentemente più banali splendeva di conoscenza che soddisfa tutti i dubbi e le incertezze. Come acqua che spegne il bollore di una pentola e acquieta!
Spesso mi sedevo vicino a lui in un silenzio che era pieno di comunicazione. Il silenzio credo sia una forma di ascolto. Quando lo andavo a trovare all’Istituto Universitario Orientale, dopo un po’ mi chiedeva sempre se avevo fatto colazione e, siccome non la facevo mai, mi portava al bar e mi offriva cappuccino e cornetto e poi mi diceva che la mattina bisogna fare colazione per iniziare bene la giornata.
Lo accompagnavo anche in giro per Napoli a fare compere o servizi vari o a prendere la metropolitana o il treno. Quando eravamo a Montesanto (un quartiere popolare di Napoli) mi diceva sempre che quel quartiere gli ricordava i quartieri dell’India. Ero quasi sempre con lui e siccome Lui mi chiedeva sempre che cosa avessi fatto quel giorno gli raccontavo tutto quello che facevo.
Stavo spesso nella sua casa e qualche volta facevo da baby sitter ai due bimbi.
E facevo giocare soprattutto il più grande Yeshe facendogli spesso da cavalluccio. Yuchen era troppo piccola. La vita in casa scorreva serena ed il Maestro stava sempre a studiare, a scrivere e leggere e a preparare le lezioni per i suoi allievi. Inoltre, intuivo che aveva una fitta corrispondenza con i suoi parenti e connazionali sparsi per il mondo dopo l’esodo dal Tibet. Lo vedevo spesso assorto nella lettura delle missive ma non ne capivo l’importanza. Lui aveva anche una libreria in un vano di porta chiuso e dentro c’erano tanti libri tibetani avvolti da drappi colorati piegati n un modo particolare. Qualche volta lo aiutavo a cucire queste custodie e appresi il modo di piegarle per proteggere i libri che non avevo mai visto prima di allora, conoscevo i libri occidentali non quelli tibetani.
Nel tempo libero Lui cucinava e mi sbalordiva il fatto che in cinque minuti era capace di preparare un pranzo per tutti e, come per magia, in cucina era già tutto in ordine e pulito. Cucinava e mi parlava della presenza quando si armeggia con gli attrezzi da cucina.
Nella estate successiva andavamo spesso a fare il bagno nella baia sotto casa scendendo per il ripido strapiombo di tufo giallo campano. Lui è un ottimo nuotatore! Nelle belle giornate si andava a fare il picnik nel giardino sopra la casa e, dopo mangiato, si riposava nella amaca che lui aveva montato tra i due pini napoletani del giardino.
Gli raccontavo come trascorrevo la mia giornata e i miei problemi di ragazzo napoletano ribelle e sempre in cerca di un lavoro per “tirare a campare” e con la testa piena di confusione e di conflitti con la mia famiglia abbastanza tradizionale e abbastanza rigida ed autoritaria. Il Maestro mi guardava e mi faceva domande del tipo: “e tu che hai fatto?” io gli rispondevo e lui si faceva molte risate divertito ed io ero molto contento! Spesso mi dava consigli su come sbrogliare i miei problemi quotidiani.
Spesso venivano a casa professori universitari delle varie facoltà a chiedere al Maestro spiegazioni riguardanti i suoi studi sull’antico Tibet. Molti chiedevano di medicina, di astologia, di architettura, di arte, di letteratura e di storia ed il Maestro pazientemente spiegava tutto spesso introducendoli ai principi dell’insegnamento.
Spesso il Maestro andava a Roma perché aveva un incarico importante presso l’istituto ISMEO e con il suo fondatore Giuseppe Tucci. All’epoca nell’istituto lavorava anche uno studioso tibetano molto colto che si chiamava Sanghe, lui ed il Maestro erano molto amici e si trattavano come fratelli sempre contenti e giocando e scherzando. Siccome lo accompagnavo spesso, una volta insieme al Maestro e la sua famiglia andai a casa di Sanghe a Roma e vidi una stanza della sua casa tutta fatta come un tempio. Era bellissimo e splendidamente addobbato!
Al Maestro piaceva molto fare scherzi: una volta stava in un bar di quartiere a Bagnoli, con il figlio Yeshe, a fare colazione ed entrarono alcuni bulletti di quartiere che iniziarono ad essere poco educati con lui ed allora lui, con lo sguardo feroce verso i bulletti e rivolgendosi a Yeshe gli disse : lo sai che papà è un maestro di kunfù, ti ricordi quella volta che ha mandato all’ospedale quattro uomini grandi che erano molto maleducati? E Yeshè che capì subito rispose di si che si ricordava. In un baleno i ragazzacci scomparvero dal locale e non si videro più in giro da quelle parti e quando passava il Maestro. Il Maestro lo raccontava e rideva!
Una volta, in metropolitana affollata, un borseggiatore tentò di rubare il portafogli al Maestro. Lui fece in modo di rendergli l’operazione facile! Appena prese il portafogli il Maestro gli prese la mano e il ladro rimase interdetto e spaventato ma chiese scusa al Maestro e se ne andò sbalordito. Poi il Maestro commentò che aveva capito tutto il movimento del ladro e si era messo apposta vicino e poi si mise a ridere scherzando. Io non mi ero accorto di nulla eppure ero accanto a lui.
Ho aiutato il Maestro a fare i vari traslochi ed i lavori di manutenzione in casa. Sapeva fare di tutto e sempre benissimo! Mi ricordo ancora un famoso armadio che smontammo e rimontammo tre volte ed alla fine dopo Formia fu buttato via.
Si può dire che fino al 1975, anno nel quale il Maestro e la famiglia si trasferirono a Bagnoli, ho vissuto a contatto con l’Insegnamento e la pratica in maniera “spontanea” senza avere nessuna cultura specifica e nessuna preparazione di nessun tipo. D’altronde lo Dzogchen è lo Stato la cui rivelazione è diretta ed inesprimibile. La presenza del Maestro perfetto è tutto!
Avevo chiesto al Maestro se poteva insegnarmi il tibetano e ho fatto qualche lezione con lui ma credo di avere messo a dura prova la sua infinita pazienza e compassione perché non capivo molto e facevo parecchi pasticci. Alla fine mi disse che era meglio se imparavo il cinese! Non sono uno studioso e d’altronde non ho nessuna preparazione di tipo letterario ho fatto solo scuole di arte e non ho nulla di speciale nello studio.
Ma sedendo in silenzio al fianco del Maestro che guidava la macchina ho appreso molte cose che adesso sono per me un fondamento della pratica. E non sto parlando di scuola guida!
Proprio nei primi tempi venivano spesso a trovare il Maestro un suo cugino e una sua sorella. Spesso ero presente in mezzo a loro e ascoltavo le loro conversazioni in tibetano in silenzio e, alcune volte, gli Insegnamenti che dava loro anche in italiano. Sempre si respirava una aria di allegria e felicità.
Il Maestro era invitato spesso per fare conferenze e una volta andai ad ascoltarlo in una grande libreria di Napoli. Mi ricordo che parlò della difficoltà di nascere uomo e di una tartaruga che emerge dall’oceano e centra un buco in un legno flottante. La tartaruga stava là e aveva centrato il buco nel legno! Dopo la conferenza si fece la folla intorno a lui e la moglie, ebbi solo il tempo di incrociare il mio sguardo con il suo e questo mi bastò!
Poi incominciarono a venire piano piano molte persone che richiedevano insegnamenti dal Maestro e, così mi ricordo, iniziarono gli insegnamenti pubblici ed i primi ritiri dopo un incontro con S.S.il Karmapa. Poi vennero i programmi per la Comunità Dzogchen a cui il Maestro dava grande importanza programmando e studiando dettagliatamente i modi di realizzazione.
Non sono cambiato da allora, ho sempre lavorato e sono sempre rimasto come ero e si vede dal mio marcato accento napoletano ma si può dire che ho ritrovato, grazie al nostro prezioso Maestro, alla sua profonda gentilezza e compassione ciò che alberga sempre nei nostri cuori.
Con il tempo mi riconosco più vecchio e più stanco ma la fresca e illimitata presenza del Maestro è sempre viva in me che sono un suo eterno allievo fra i tanti. Sono uno della Comunità Dzogchen e così porgo tantissime grazie a tutti i miei fratelli del Vajra che assieme al Maestro ed agli Insegnamenti sempre mi supportano nella vita. Grazie di cuore a tutti!
La casa rossa a Gaiola
Nicoletta Liguori
Ho incontrato il Maestro nella primavera del 1971. Insieme a una mia amica ero iscritta alla palestra Budo, una palestra di judo a Napoli in via Mezzocannone, vicino all’Università l’Orientale dove studiavo. Una sera una mia amica mi ha detto che l’istruttore di judo aveva scoperto che c’era un Maestro tibetano a Napoli che insegnava yoga al Palazzetto dello Sport a Fuorigrotta. Era entusiasta e motivata e desiderava molto incontrarlo.
Ovviamente le ho subito detto che si sbagliava, che doveva essere un maestro indiano perché ero assolutamente sicura che non ci fosse alcun maestro tibetano a Napoli. Il giorno dopo sono andata al Palazzetto dello Sport e quello che ho trovato è stato un maestro tibetano! Era ‘Norbu’ e il signor Procaccini, il suo capo, me lo presentò e dopo un paio di giorni ho iniziato le classi di yoga.
Il Maestro era amichevole con noi e ci trattava da pari sebbene fosse risoluto e se ne avevamo bisogno non esitava ad accompagnarci a casa se era di strada con la sua Fiat 850 Spider rossa convertibile.
C’erano diverse persone che studiavano Yantra Yoga con lui, incluso un famoso astrologo napoletano il più bravo a fare le asana. Ma la cosa più impressionante di queste lezioni era che alla fine delle lezioni il Maestro dava insegnamenti a un piccolo gruppo di tre o quattro persone. Questo per me era straordinario perché parlava degli insegnamenti Dzogchen. Non avevo idea che al di là dell’aspetto fisico dello yoga ci fosse qualcos’altro da imparare, qualcosa che si applicava a livello del corpo, della voce e della mente, usando le sue parole. Molte persone gli facevano molte domande ma io rimanevo in silenzio cercando di capire quello che diceva.
Il Maestro evitava di esibire i propri meriti ed è stato solo quando l’ho visto scendere le scale all’Orientale vestito con un elegante completo nero che ho capito che era un docente universitario di tibetano e mongolo.
Allora avevamo un contatto stretto con ‘Norbu’, come lo chiamavamo, che viveva con la sua famiglia a Torre del Greco. In quel periodo suo figlio Yeshi aveva pochi mesi. Rinpoche non parlava molto della sua vita privata ma quando ho conosciuto Roberto, il mio futuro marito, tramite Rinpoche mi disse che Rinpoche e sua moglie Rosa avrebbero avuto una bambina ad agosto. Così ad agosto andammo a casa di Rinpoche per appendere una ghirlanda per la nuova arrivata e dopo la sua nascita ho aiutato Rosa con la piccola passando molto tempo a casa loro.
La vita dedlla famiglia del Maestro si basava sulla massima collaborazione reciproca. Rinpoche ha sempre fatto le faccende domestiche, bene e serenamente. Aiutava Rosa in cucina e si occupava dei figli. A volte ci preparava tipici piatti tibetani, momo e tsampa, e quando mancava un ingrediente il Maestro risolveva la cena con una semplice piatto di spaghetti con un pesto a base di prezzemolo, aglie e salsa di soia.
Poi in autunno Roberto ed io abbiamo invitato il Maestro e la sua famiglia a vivere con noi a Gaiola, in una magnifica villa mediterranea costruita sulle rovine di una villa romana e prima ancora di una villa greca. Fu la casa di Oscar Wilde quando visse a Napoli. In quel periodo un sacco di giovani andavano e venivano a Gaiola.

Roberto Ventrella mentre si rilassa con un amico nel salone di casa sua sopra quella del Maestro e di Rosa
La “casa rossa”, come abbiamo battezzato la villa a Gaiola, divenne un posto ideale e speciale per crescere i bambini e per meditare. Infatti il Maestro scoprì anfratti, caverne e luoghi che nessuno di noi aveva notato. A volte ci raccontava i suoi sogni che lo riportavano a insegnamenti e ricordi ancestrali della sua vita tibetana. Ci raccontava dei viaggi del tè condotti da sua sorella maggiore e di come, in più di un’occasione avesse affrontato gli attacchi dei banditi usando il semplice suono di una campana, evocando le Guardie a protezione dell’insegnamento. Alcuni ragazzi si trasferirono a casa nostra come Claudio mentre altri come Antonio veniva praticamente tutti i giorni.
Una volta a settimana Norbu ci dava insegnamenti nella grande sala della villa e ci riunivamo ad ascoltare con rispetto le sue parole di saggezza. La sorella del Maestro, Jazon, che viveva in Svizzera con suo marito, venne a trovarlo alla villa e fu un periodo felice quando i suoi cugini Sonan e Kundè vennero a trovarlo. La presenza di Norbu a Gaiola attirò l’attenzione e l’interesse di personalità illustri, artisti, poeti e musicisti. Uno di questi ospiti speciali fu Paul Buckmaster, un giovane musicista e arrangiatore di molti artisti anglosassoni e italiani, che ogni sera rimaneva colpito dai suoni della pratica che Norbu e i suoi cugini facevano. Paul, entusiasta, mi confidò di non aver mai sentito una musica sublime come quella e si organizzò per registrarla.
La nascita di mio figlio Asad era un evento molto atteso in famiglia, soprattutto da Yeshi e dalla piccola Yuchen che entusiasta appena lo vide lo chiamò Pupito.
Nel 1973 qualcosa di speciale accadde. Il proprietario di Gaiola ci chiese di lasciare la casa. Se avessimo voluto comprarlo avremmo potuto continuare a vivere lì ma non volevamo farlo anche se il Maestro aveva trovato molti posti meravigliosi nel giardino intorno a quella casa che erano davvero adatti per praticare, come un patio contenente un’antica colonna greca del IV secolo a.C .che si affacciava su un grande teatro greco dello stesso periodo storico e una terrazza con vista sul mare dell’isola di Capri.
Il Maestro non perse tempo e appena seppe che dovevamo lasciare la casa lo fece. In quel periodo c’era anche sua sorella che aiutò Rinpoche e Rosa a traslocare.
Rinpoche e la sua famiglia trovarano temporaneamente una casa nella perifieria di Napoli, a Bagnoli, e poi più tardi si trasferì in una casa a Pozzuoli, sul fianco di una collina del cratere vulcanico della solfatara. La casa divenne la nuova meta di tutti i discecepoli del Maestro per molti anni.
Io e Roberto siamo riusciti a rimandare il trasloco di qualche mese e siamo tornati a vivere nel centro di Napoli per qualche mese e subito dopo abbiamo messo in atto il piano che avevamo deciso l’anno prima di lasciare Napoli e prendere una casa in campagna con un po’ di terreno. Ed è quello che abbiamo fatto.
Per mesi e mesi abbiamo esplorato tutta la campagna circostante fino a trovare questo bellissimo pezzo di terra a Prata con una casa in pietra. Il Maestro trovò un altro pezzo di terra adiacente con una piccola casa. La casa non era abitabile quindi prima di tutto dovevamo ristrutturarla. Non c’era elettricità, né acqua né una strada per arrivarci. Era davvero un posto selvatico e dovevamo portare l’acqua da un pozzo poco lontano. La casa a Prata è molto importante per il semplice fatto che ospitò il primo ritiro internazionale della Comunità Dzogchen.
La Comunità si formò nel 1976. Ci riunimmo per la prima volta a casa di Nuria e Antonio Morgione. Eravamo in 12 e abbiamo scritto le basi della Comunità Dzogchen.
Lo stesso anno si svolse il primo ritiro a Subiaco. Era un ritiro con poche persone, soprattutto italiane. In seguito il Maestro suggerì di fare un ritiro a Prata, che fu il primo ritiro ‘ufficiale’ con 60-70 persone provenienti da tutto il mondo. Durò tre settimane, da luglio ad agosto 1977. All’inizio Rinpoche ci disse che sebbene i Maestri tibetani tradizionali sedessero su di un alto trono quando davano insegnamenti lui si sarebbe seduto tra di noi, senza distinzioni con noi.
Quella che il Maestro ha insegnato a Prata è stata la lezione fondamentale della nostra esistenza di cui ha dato generosamente insegnamenti senza riserve né limiti, facendoci sentire parte di una comunità di fratelli e sorelle Vajra. Ci ha insegnato a considerarci ciascuno lo specchio dell’altro, a non entrare nel giudizio, a perseguire il bene comune senza distinzioni e ad esercitarsi superando le nostre passioni e diventando finalmente liberi.
Il Maestro e Nicoletta
La storia di una dei primi praticanti di Yantra Yoga
Nicoletta Liguori
Tradotto da Alessandra Policreti
Il Maestro Norbu indossava una tuta rossa, aveva una corporatura forte e snella, gli occhi orientali penetranti e mobili. Soccorreva chi aveva difficoltà nell’eseguire gli esercizi di yoga e spesso la bocca si apriva in un sorriso incoraggiante. Le mani sfioravano lievi con una pressione impercettibile ma efficace la parte del corpo degli studenti che intendeva correggere.
Ero particolarmente attratta dai piedi del Maestro, benché piccoli sembravano saldamente poggiati, come incollati al suolo, quando eseguiva le asana su un piede solo non si notava nemmeno la più impercettibile delle oscillazioni. Il senso della stabilità e la leggerezza segnavano i suoi movimenti.
La prima regola che il Maestro raccomandava era quella di espirare nelle fasi di contrazione, di chiusura del corpo e di inspirare durante le estensioni. Poiché lo Yantra Yoga, spiegò, è costituito dall’insieme di movimento e respirazione, ogni gesto doveva essere accompagnato da una fase precisa della respirazione. Disse che ‘inspirare’ è una funzione naturale spontanea ma non lo è altrettanto ‘espirare’ e come questa azione specialmente da noi in occidente fosse diventata una pratica trascurata. Inspiriamo e tratteniamo senza espirare.
Il nostro respiro si ferma alla parte alta dei polmoni, creando un terreno tossico nei polmoni e nel resto degli organi a causa del mancato smaltimento delle sostanze di rifiuto. Una respirazione corretta è in grado di fornire ossigeno a vaste zone del corpo, rastrellare gli accumuli di anidride carbonica e altre sostanze tossiche e mediante una espirazione efficiente, convogliare tutti i rifiuti all’esterno.
Il Maestro era estremamente gentile, dotato di una pazienza infinita ci diceva che non c’era niente di cui preoccuparsi se non riuscivamo a sedere nella posizione del loto ma solo a gambe incrociate e per questo motivo illustrava una ad una le posizioni in cui sedere senza sforzo, al nostro livello di possibilità. Poi passò ad impartire le istruzioni per le nove respirazioni, che dovevano aprire qualsiasi pratica di Yantra Yoga e successivamente ogni altra. Una condizione necessaria per effettuare le nove respirazioni era sedere in una posizione che mantenesse la schiena controllata e non rigida, i pollici e gli anulari ai due lati delle ginocchia ad esercitare una leggera pressione, lingua appoggiata sotto il palato, occhi socchiusi e rivolti verso la punta del naso, mento leggermente piegato e tirato appena indietro, spalle abbassate.
Il Maestro si esprimeva in un italiano particolare, ma i concetti assai chiari spalancavano un mondo sconfinato sulla conoscenza. Per la prima volta nella mia giovane vita prendevo coscienza del respiro e delle infinite potenzialità che questa consapevolezza consentiva di sviluppare, del mio corpo, di quanta attenzione si dovesse tributare ad esso, e delle infinite potenzialità della mente.
Il Maestro dava la sensazione di parlare a ciascuno di noi e si rivolgeva a ognuno come a un soggetto unico, invece che a un gruppo di persone.
Sentivo forte l’autorevolezza che emanava dalla sua persona. Al suo cospetto provavo un senso di serenità e nel contempo una sollecitazione verso l’apprendimento di una conoscenza assoluta e indefinita insieme.
Il tempo della lezione sembrava scorresse con una lentezza indicibile, tuttavia avevo la sensazione che non fosse mai abbastanza lungo, e nessuno dei due criteri pareva dominare sull’altro.
Le asana per così lungo tempo agognate non erano trattate che alla fine della lezione e non sembravano rivestire un ruolo rilevante nell’economia dell’intero complesso dello Yantra Yoga. Al corso di yantra che ebbi il privilegio di frequentare in quegli anni partecipavano allievi che avevano conseguito un livello di preparazione notevole nell’eseguire gli esercizi più difficili. Uno di questi si chiamava Ciro e aveva molta facilità con le posizioni più avanzate.
Ero giunta alla conoscenza del Maestro Norbu in un modo singolare. Una sera due mie amiche che frequentavano insieme a me una palestra di judo e che condividevano il mio stesso appartamento, tornarono a casa con un’aria mistica, sostenendo di aver appreso della presenza di un maestro tibetano a Napoli. Spinta da una legittima curiosità ma con un po’ di scetticismo andai subito a conoscere il Maestro tibetano in questione. E così vidi Norbu per la prima volta, un giovane tibetano con la tuta rossa e un grande sorriso benevolo. Nel preciso momento in cui il mio sguardo si posò su Norbu in cuor mio lo elessi a mio Maestro attraverso cui ero certa di dare corpo a quanto andavo vagheggiando da sempre.
Per anni prima di conoscerlo mi ero interessata alle scienze occulte, alla magia e allo yoga e a tutto quanto potesse farmi scoprire l’esistenza di dimensioni che normalmente sfuggono a una percezione ordinaria. A distanza di tanti anni mi chiedo quale fosse stato il motore di propulsione che spingesse una ragazza semplice di diciannove anni a cercare senza la minima consapevolezza qualcosa che desse corpo alle aspirazioni di conoscere la propria vera essenza. L’incontro così fortunato con il Maestro mi proiettò in un’aura che potrei definire mistico-positivista. Sentivo affiorare i ricordi ancestrali del mio essere, scattare come molle tenute compresse in una cassa di ferro. Sentivo che la mia ricerca, ben lungi dall’essere compresa appieno nel suo significato ultimo, era giunta quasi senza sforzo alla sorgente.
Durante una delle lezioni di yantra, mi prestai a un gioco divertente quasi di illusionismo. Qualcuno degli studenti aveva chiesto al maestro se fosse stato possibile sollevare un corpo con due dita e lasciarlo a mezz’aria. Il Maestro tra il serio e il divertito rispose che si poteva provare e chiese a me di fare da modella. Non ebbi dubbi e accettai di sottopormi alla prova senza la minima esitazione, dal momento che riponevo una fiducia assoluta nel Maestro. Mi suggerì alcune istruzioni su come dovessi comportarmi durante l’esperimento. Dovevo stringere i pugni lungo il corpo, allineare i piedi e stare in una posizione controllata ma non rigida. Il Maestro pose indice e pollice uniti delle due mani sotto le mie spalle mentre uno studente faceva altrettanto ai miei piedi. Con sole quattro dita che mi sorreggevano mi ritrovai sospesa a mezz’aria quasi senza che me ne rendessi conto. Ad un cenno del Maestro le dita divennero solo quattro, poi… nessuna. Rimasi sospesa per pochi lunghi istanti in assenza totale di peso e pensieri. Appresi cosa volesse dire stare sulle nuvole. Quando ripresi il contatto con il pavimento ritrovai coscienza di me, del mio corpo e del suo peso. Intorno a me tutti sorridevano tra l’incredulo e il divertito.
Il Maestro Norbu ci insegnò che lo Yantra Yoga non solo contribuiva a mantenere il corpo in forma, ma risultava efficace alla propria realizzazione così come era avvenuto per un grande Yogi: suo zio Togden. Lo zio di Norbu tutte le mattine all’alba eseguiva l’intero thun di Yantra Yoga completamente nudo e all’aperto con qualsiasi condizione atmosferica.
Il Maestro poneva l’accento in primo luogo sulla importanza della respirazione consapevole. Alla respirazione attribuiva grande importanza, oltre che per la funzione fondamentale alla nostra vita, anche per il potere di veicolare l’energia verso la realizzazione totale. Le nove respirazioni di purificazione, gli otto movimenti, la respirazione ritmica sono pratiche indispensabili al raggiungimento di una condizione di equilibrio del corpo, della energia e della mente.
La lezione che imparai più in fretta di altre fu quella di conseguire la piena libertà di cui dovevo servirmi e rendermi consapevole.
La disciplina a cui il Maestro ci sottoponeva era funzionale al raggiungimento di un livello di preparazione di base nello Yantra Yoga, ma doveva essere del tutto priva di sforzo. Il principio si basava sulla necessità di non piegare la volontà all’espletamento delle pratiche yoga in modo forzato, principio che diventò un codice di comportamento che ho cercato di applicare in ogni circostanza della vita.
Il Maestro disse che, se avessimo sgombrato la mente dalle restrizioni delle costrizioni che interferiscono con la spontaneità delle nostre azioni, avremmo ottenuto molto più in fretta ed in modo efficace la comprensione degli insegnamenti. Norbu disse che la nostra realizzazione era ostacolata da una serie di condizionamenti dovuti alla cultura e a tutto quanto avevamo imparato fino a quel momento. Lo Yantra Yoga poteva aiutarci nel processo di liberazione dai lacci delle sovrastrutture imposte da una società così pervadente. Liberando il corpo e la mente dai vincoli che velano la visione ordinaria, possiamo finalmente entrare nel senso vero della nostra esistenza.
La classe che seguiva le lezioni di Yantra Yoga del 1971 era composta da personaggi eterogenei e spesso singolari. Il Maestro di certo non chiedeva ai suoi discepoli la provenienza sociale o il grado di istruzione e dunque una infermiera, una fisioterapista, un informatore scientifico, delle studentesse universitarie, operai metalmeccanici, dottori, ingegneri, impiegati comunali e artisti affollavano le lezioni di Yantra.
La peculiarità dell’evento senza precedenti che si verificò in quella sede consisteva nel fatto che tutti potevano, utilizzando la sola attenzione, comprendere gli insegnamenti elevati che il Maestro ci impartiva dopo la fine della lezione. Ma non tutti gli allievi si trattenevano, anzi solo tre o quattro di noi spontaneamente sedevano sul tatami intorno a Norbu ad ascoltare attenti gli insegnamenti di un antico lignaggio: lo Dzogchen. Imparai ben presto che quell’insegnamento che il Maestro così generosamente rivelava ai pochi allievi dopo lo Yantra Yoga era tanto prezioso quanto segreto e doveva essere custodito con la stessa cura che si presta a un gioiello di enorme pregio.
Nicoletta Liguori, pubblicato originariamente sulla rivista Merigar Letter, dicembre 2011.