Alla fine del mio quarto anno di Medicina, nel 1977, mi arrivò la voce che in Italia si poteva studiare Tibetano all’Università, notizia che respinsi subito come un’irrealistica frottola. Ma era vero! A quel tempo mi nutrivo di scienza: leggevo religiosamente Scientific American e certe ‘vibrazioni’ indo-buddhiste erano per me solo poco più di una curiosità. Il successivo anno accademico decisi comunque, con orrore della mia famiglia, di andare a studiare Tibetano a Napoli. Dopo varie letture, infatti, da Castaneda alle favole di Rampa e al Taoismo, il Buddhismo Vajrayāna mi sembrava l’unica tradizione affidabile, perché possedeva una rara continuità di trasmissione, ed erano anni che pregavo intensamente in cuor mio di trovare qualcuno in grado di indicarmi una via di conoscenza interiore realmente percorribile.
Al mio ‘primo giorno di scuola’ in classe c’erano sei o sette studenti e uno strano tipo di cui una sola cosa mi fu subito chiara: era tibetano. Questo giovane professore era asciutto e così ben prestante che ricordo di averlo subito paragonato a Bruce Lee. Parlava con una cadenza dolce ma molto vivace e marcata, storpiando un Italiano che mi sarebbe diventato ben noto e caro nei decenni. Il suo modo d’insegnare era inoltre decisamente, e piacevolmente, anticonvenzionale. Una cosa che disse nei primi giorni fu: “Tibetano…? Facile!”. Ahimè…
A lezione finita io mi alzavo e me ne andavo, lambiccandomi il cervello sul perché gli altri non si muovessero, ma ero troppo introverso e timido per chiedere. Nelle settimane successive accadde però qualcosa di strano: ogni notte facevo dei sogni molto particolari in cui questo tibetano mi diceva un sacco di cose fantastiche e profonde, che nel sogno capivo, ma in modo inespresso e indefinito. Successe per tante notti, in un modo che non mi era mai capitato e che a tutt’oggi non si è mai più verificato. Mi svegliavo sbigottito ogni mattina, non ricordando purtroppo assolutamente nulla di specifico di tutta quella valanga di comunicazioni, e a lezione passavo tutto il tempo a osservare stralunato questo strano professore, chiedendomi ossessivamente chi fosse realmente. Di Tibetano ascoltavo davvero poco…
Nei corridoi cominciai a sentire mormorare che ‘Norbu’ era un maestro. Un ‘Maestro’…‽ I miei pensieri ed emozioni cominciarono a diventare tumultuosi. Poi un bel giorno una del gruppetto mi disse che loro si vedevano con ‘Norbu’ in una specie di palestra. Così nel pomeriggio arrivai a uno scantinato a cui si accedeva tramite alcuni gradini. Quando vidi una dozzina di scarpe fuori dalla porta i miei allarmi anti-setta e ciarlatani si accesero tutti e, non fosse stato per le insistenze di chi mi accompagnava, avrei fatto immediatamente dietrofront. Ma poi entrai, mi sedetti a gambe incrociate in prima fila e il ‘professore’ cominciò a parlare: è difficile comunicare ciò che successe se non dicendo, in modo tradizionale, che la ‘ruota del Dharma’ iniziò a girare vorticosamente, non come una fantasia, ma come un’esperienza molto reale, precisa, tagliente e maestosa.

I primi giorni a Merigar con Chögyal Namkhai Norbu a destra, al centro Roberto Curtis e Giovanni Arca a sinistra.
Quello fu l’inizio, poi vennero i molti anni di Napoli, le tante occasioni di stare insieme con il Maestro, in un quotidiano tanto informale quanto speciale, e poi la formalizzazione della Comunità Dzogchen, l’acquisto di Merigar, la lunga esperienza nella Shang Shung Edizioni, le esperienze nei Gakyil, la Merigar Letter, il The Mirror stesso, e via dicendo, fino a queste righe che scrivo nel Gar di una Tenerife inondata di sole. Ma i miei primi ‘incontri’ con il Maestro, sono avvenuti semplicemente così, in una classe e nei miei inspiegabili sogni.
Ho ovviamente tanti ricordi di momenti ed eventi con Chögyal Namkhai Norbu, e talvolta ho condiviso con altri praticanti quelli meno personali e privati, aneddoti in cui la memoria diventa edificante ed ispiratrice. Scriverne, tuttavia, è un po’ diverso, perché la comunicazione orale è flessibile, si avvale d’intonazioni, linguaggio corporeo, contesti, ed è ritagliata, per così dire, intorno all’interlocutore, mentre la parola scritta è fissa e inamovibile per chiunque, e le sue interpretazioni sono spesso imprevedibili. Gli aneddoti sono poi spesso autoreferenziali e non raramente autocelebrativi. Quindi ho esitato un po’, ma considerando lo spirito e le motivazioni di questa colonna, eccone alcuni che posso condividere, spero in modo leggero e forse anche un po’ divertente. E lo farò proprio come una breve lista, appunto, di storielle aneddotiche.
Star Trek e Kung Fu
Quando scoprii che al Maestro piacevano le mie serie televisive preferite di Star Trek e Kung Fu (in Italia dai primi anni ’80) ne fui deliziato! Guardarle con lui era impagabile: ogni tanto commentava, tutto preso: “Ecco, vede, vede… Questo essere [un alieno] può essere proprio così”, oppure tipo: “Certo, questo è possibile in quella dimensione…”. Anche Kung Fu era molto interessante perché era centrato su tecniche meditative psicofisiche. C’erano sempre flashback in cui il protagonista, David Carradine, ricordava momenti vissuti con il suo vecchio maestro, che macinava perle di saggezza a cui il Maestro spesso aggiungeva entusiasticamente commenti molto interessanti, talvolta corroborati da precisi riferimenti all’Insegnamento.
A volte si faceva talmente tardi la sera che ci accasciavamo letteralmente sui divani, ‘cotti’ dal sonno. Quando mi svegliavo, lui era sempre già seduto chissà da quanto a tavolino, schiena svettante, intento a scrivere sogni o materiale per la Comunità (allora scriveva tutto a mano, e poi noi facevamo fotocopie). Se dopo un’intera pagina di perfetta calligrafia faceva un errorino all’ultima riga, dopo avermi dato un’occhiata di pretesa sofferente rassegnazione, stracciava il foglio e ricominciava da capo.

Mig Mang e Mikado
Generalmente non mi piacciono i giochi da tavolo e, contrariamente a diversi della vecchia guardia, non ho mai imparato a giocare a Bagchen, uno dei giochi favoriti del Maestro. Ma ho avuto una bella ‘introduzione diretta’ a Mig Mang e Mikado. Giocare con il Maestro non era sempre un’esperienza ‘facile’, come ben sanno i vecchi ‘Bagchenisti’ della Comunità: del resto, quando si gioca con un ‘gigante’ bisogna sempre fare una certa attenzione… Come mi ha insegnato a giocare a Mig Mang però è quasi impossibile da fare! Non ammetteva che pensassi più di un istante o due, ma già dopo il primo secondo cominciava a dare segni d’impazienza. Continuava a ripetere: “Non pensare, devi solo usare gli occhi, il gioco si chiama proprio così, ‘Molti Occhi’. Per uno come me, che rincorreva la propria testa come un cacciatore di farfalle con la retina, era una sfida pazzesca, ma ero talmente assediato dalle sue insistenze che alla fine giocavo davvero quasi senza pensare. A volte avevo praticamente già perso, ma lui girava la scacchiera e riusciva a stracciarmi comunque. Se ho mai vinto? Macché, non se ne parla nemmeno. Una volta però arrivai molto, molto vicino a batterlo: non vi dico la soddisfazione, anche se alla fine vinse lui comunque. Secondo quanto mi disse, con un sorriso fieramente divertito, non aveva mai perso.
Non parliamo poi di Mikado: le regole per toccare e sollevare i bastoncini mi obbligavano talvolta a contorcermi sul pavimento. Il suo concetto di ‘vibrazione’ di un bastoncino sconfinava praticamente nelle percezioni extrasensoriali! Che divertimento comunque… Ho bei ricordi di quei momenti, soprattutto con lui e un’ancora giovanissima Yuchen, che una volta mi mandò nel panico totale di perdere a Mig Mang contro una ragazzina. Vinsi appena per un pelo: lei era già bravissima! Chissà, magari aveva avuto compassione e mi aveva lasciato vincere…
Il regalo
Una volta camminavamo con Yeshi, che doveva avere circa nove anni, e siamo passati davanti alla vetrina di un negozio, che forse era di giocattoli. Evidentemente già sapendo esattamente cosa voleva, chiese al papà se poteva comprarlo. Non ricordo di che cosa si trattasse, ma quando il padre gli chiese quanto costava notai che non erano proprio due soldi, anzi… Il Maestro si fermò, e con un gesto misurato e direi quasi teatralmente maestoso, tirò fuori un grosso portafoglio, ne estrasse un’altrettanto grossa banconota e gliela diede.
Mentre Yeshi si affrettava ad entrare nel negozio, io dovevo probabilmente avere un’aria piuttosto sorpresa, o forse stavo semplicemente assaporando un momento che non avevo mai conosciuto, dato che mio padre è morto quando ero piccolissimo. Comunque sia, il Maestro si volse verso di me e, con quel fare che comunicava sempre molto più delle parole, mi disse: “Eh, vedi, bisogna fare queste cose quando è il momento giusto, perché se no dopo è troppo tardi”. Tutto mi sembrò giusto e buono in quel momento.
L’ufficio amministrativo
Una volta lo accompagnai in un ufficio amministrativo separato dell’Università, un ambiente fatiscente e quasi sordido. Per me era come andare a fianco di un re, davvero, e persino mi sembrava assurdo che lui dovesse faticosamente fare le scale, andare in questo posto così squallido, e poi a fare che? Qualche bega riguardo a pagamenti mi pare, con una tipa che gli rispondeva a mezze parole, scostante, senza dargli nemmeno la minima importanza. Mi veniva quasi da urlare “ma lo sai chi hai di fronte, lo sai chi è questa persona‽” E lui gentile, senza fare una piega. Ma poi, avviandoci fuori, come sempre percependo in qualche modo i miei pensieri, mi guardò in modo significativo, dicendomi qualcosa tipo “hai visto, vedi come sono le cose… Tu non pensavi, eh?”. No, non lo pensavo…

In treno
Tutte le semplici esperienze di una banale quotidianità si trasformavano in momenti speciali stando con il Maestro. Perché? Perché Chögyal Namkhai Norbu era la più speciale delle persone semplici e la più semplice delle persone speciali, e niente poteva essere lo stesso in sua presenza. Perlomeno, questo era l’effetto che faceva a me e, sono sicuro, a molti di noi.
I viaggi con il Maestro erano per me un momento atteso, quando prendevamo insieme l’autobus per andare alla stazione e poi il treno. Lui scendeva a Formia e io continuavo per Roma. In treno cercavo di fare conversazione casuale, con effetti a volte esilaranti e a volte disastrosi. Non so come facesse a essere così paziente e gentile con me. Soprattutto verso gli inizi, reagendo probabilmente alla mia forte introversione, io ero a volte un pochino impertinente, e dato che non avevo un pedigree da circoli ‘spirituali’ di alcun tipo, né m’impressionavano granché i titoloni Vajrayāna ero, diciamo così, poco ossequioso. Così una volta che in treno mi annoiavo da morire, e ce l’avevo davanti tutto il tempo senza che profferisse parola, cominciai un gioco ridicolmente infantile (scalpitavo per un qualche tipo di scambio…), e così gli dissi, impersonando un immaginario viaggiatore sconosciuto: “Scusi, ma lei è Tibetano?”
Ricordo molto bene momenti del genere in quei primi anni, quando ancora avevo il coraggio, o meglio un’incosciente temerarietà, di mettermi a giocare con il leone. In casi come questo gli occhi del Maestro si posavano su di me come se il suo sguardo scendesse da un’altezza incommensurabile, il viso scolpito in un’immobilità monumentale, poteva letteralmente terrorizzare. Ma in un attimo tutto si scioglieva in una dolcezza che, adesso so, era plasmata dalla compassione.
Macchiettando in carattere mi rispose stando al gioco, in un tono ridicolmente chioccio: “Eh sì, io sono proprio Tibetano! Lei è giornalista…?”. Dopo di che qualcosa nella mia mente fece un tale corto circuito da insegnarmi immediatamente, e profondamente, che giocare con il re dei giochi non è mai un gioco.
Un’altra volta non avevamo trovato posto e stavamo tutti e due appiccicati a un finestrino del corridoio. Avevo l’abitudine, da quando l’avevo scoperto da ragazzino, di guardare fuori dal finestrino muovendo rapidamente gli occhi nello stesso senso di marcia. Normalmente, tutto ciò che passa molto vicino al treno, come pali, cespugli e via dicendo, scorre via in una scia indistinta, ma quando si muovono gli occhi in quel modo, per un istante molto breve si può vedere tutto perfettamente stabile di fronte a sé, come se il treno fosse immobile. Mentre lo facevo, con mia estrema sorpresa, il Maestro mi guardò e, senza dire una parola, mi fece un cenno d’assenso molto chiaro e marcato, come per comunicarmi che sì, quella era una cosa che poteva dare risultati ‘interessanti’; non so come potesse esserne accorto, né gli chiesi mai lumi al riguardo, ma mi sembrò di capire bene qual era il senso che cercava di comunicarmi. Tutto poteva diventare Insegnamento con Chögyal Namkhai Norbu.
Una scenetta che ricordo sempre, e che ho raccontato spesso, è una in cui il Maestro era sceso a Formia e noi (c’era qualcun altro con me quella volta) come al solito stavamo col finestrino aperto per guardarlo e salutarlo fino all’ultimo secondo, quando spariva nel sottopassaggio. Lui camminava lentamente, girandosi indietro e verso l’alto, sorridendo per salutarci con il suo fare istrione, quando a un certo punto, orrore! Vedemmo che proprio dove stava per mettere il piede, sul gradino successivo, c’era una lattina vuota. Non poteva accorgersene perché guardava verso di noi, né noi potevamo avvertirlo perché era troppo tardi e il suo piede era quasi lì. Ma all’improvviso, quasi magicamente, un omino sbucò dal nulla e, rapidissimo, gli tolse la lattina praticamente quasi da sotto il piede, una frazione di secondo prima di quella che sarebbe stata quasi certamente una rovinosa caduta. Il Maestro si accorse di quanto stava per succedere, e a noi che ci sbracciavamo facendo segni come per dire comicamente “eh, ma che esagerazione di protezioni c’hai‽”, stringendosi classicamente nelle spalle e sorridendo, vedemmo che ci elargiva il suo solito e ben noto “Che ci posso fare…?”.
Tanti altri episodi che ricordo riguardano i non facili inizi di Merigar, divertenti situazioni conviviali, le ‘storie notturne’, la sua famosa Citroen Pallas, e tanti altri squarci di piccoli-grandi momenti a cui ho avuto il privilegio di assistere o di condividere con una tale straordinaria persona. Poi eventi decisamente non ordinari, ma che meritano maggiore riserbo, ed altri relativi al grande spessore culturale del Maestro. Ma per ovvie ragioni di spazio devo fermarmi qui. Prima però ho un’ultima considerazione da fare.
Sebbene questi aneddoti possano dare l’impressione di un certo casuale e amichevole cameratismo con Chögyal Namkhai Norbu, penso sia importante sottolineare come in ogni momento egli fosse sempre e soprattutto il Maestro, la cui intensa energia interiore era costantemente e potentemente presente. Una certa confidenza sviluppatasi negli anni non equivaleva ad essere ‘amici’, perché nemmeno per un istante egli abbandonava il ruolo e l’impegno di essere guida per i suoi studenti. Anche se ciò può sembrare ovvio, desidero evidenziarlo come un aspetto fondamentale della mia esperienza, che mi ha fatto capire quanto seria e totale debba essere la dedizione di chi è in grado, e decide, di trasmettere l’Insegnamento. È anche una rinuncia alla propria libertà e indipendenza, con conseguenze che chiaramente si estendono anche ai familiari. Un sacrificio, insomma, che la realizzazione spirituale non rende comunque meno presente nella sua dimensione umana e sociale.
Lungi da me ogni intento di creare narrative di mitologia agiografica, ma questa è semplicemente la mia esperienza, e una piccola parte di ciò che posso volentieri condividere.
Giovanni ha incontrato il Maestro nel 1978 all’Orientale di Napoli, come professore di Tibetano e Mongolo. Negli anni ha partecipato alle prime attività della Comunità, dapprima informalmente, poi con incarichi di Gakyil e in particolare per molti anni come responsabile della Shang Shung Edizioni e varie attività collegate. Vive con la sua famiglia e lavora come insegnante e ricercatore universitario a Melbourne, ed è membro della Comunità australiana da quasi vent’anni.